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- Castano Primo e il Polo Logistico: analisi critica sulla gestione dell’amministrazione comunale
C’era una canzone che avvertiva: “Là dove c’era l’erba ora c’è una città” . Sembrava un ammonimento leggero, quasi una filastrocca urbana, ma più passano gli anni più assomiglia a una diagnosi. A Castano Primo non siamo ancora al cemento che divora tutto, ma la sensazione è che qualcuno stia sparecchiando la tavola al verde per far posto a qualcos’altro. È una sensazione che non nasce da annunci roboanti, né da progetti sbandierati: nasce dal modo in cui il silenzio, a volte, pesa più di qualsiasi comunicato ufficiale. I campi sono ancora lì, immobili, placidi, pieni di quella dignità silenziosa che solo la terra sa conservare. Non c’è stato alcun movimento di ruspe, nessun camion che entra, nessun cartello “lavori in corso”. Eppure, attorno a quella distesa apparentemente intoccata, si muove un brusio crescente: riunioni in cui si chiede chiarezza, comitati che raccolgono firme, articoli che provano a decifrare l’indecifrabile. Dall’altra parte, l’amministrazione parla a bassa voce, come chi tocca un argomento scottante con la punta delle dita. Le frasi sono prudenti, calibrate, quasi timorose di essere interpretate. È come osservare due mondi che si sfiorano senza incontrarsi: la terra, da un lato; il futuro ipotizzato (e mai confermato) dall’altro. L’erba c’è ancora. La città, forse, no. Ma qualcosa si muove. E non è un dettaglio. È in questo scenario sospeso che Castano Primo diventa un teatro particolare. Non il più grande, non il più prestigioso, ma uno di quelli dove si recita meglio l’arte tutta italiana del “non decidere, così nessuno potrà accusarci di aver deciso” . Qui le decisioni non vengono annunciate: evaporano, riappaiono, vengono sfumate, corrette, reinterpretate. Il risultato è un dibattito pubblico che somiglia a una nebbia: sai che c’è qualcosa davanti a te, ma non riesci a vedere quanto è vicino, né quanto è grande. Il terreno individuato – circa 12 ettari poco lontano dall’Istituto Torno – non è un posto qualunque. È una delle ultime porzioni agricole compatte dentro un territorio ormai segnato da attività produttive, capannoni, spazi logistici, impianti commerciali e aree residenziali cresciute a macchia di leopardo negli ultimi trent’anni. È un nodo simbolico, oltre che fisico: un punto in cui si intersecano ambiente, urbanistica, mobilità, scuole, interessi economici e qualità della vita. Non sorprende che l’ipotesi – anche solo teorica – di un polo logistico susciti reazioni immediate. Ma è sull’amministrazione che si concentra lo sguardo. Perché il vicesindaco Rivolta ripete che “amministrativamente non c’è nulla”. Il sindaco Colombo aggiunge che “non va demonizzato nulla”. Sono frasi legittime, certo, ma hanno un effetto collaterale: comunicano senza informare. È come dire che il cielo è nuvoloso senza specificare se pioverà: tecnicamente è corretto, praticamente non aiuta nessuno a capire. Il sospetto dei cittadini non nasce da complotti o fantasie, ma da un fatto semplice: quando un’amministrazione dice che “non esiste un progetto”, ma nello stesso tempo l’area è già inserita nel PGT come trasformabile, qualcuno si domanda se il percorso non sia già iniziato, anche senza documenti depositati. Il PGT non è una poesia: è un indirizzo politico. E quando un terreno cambia destinazione, anche solo in potenza, il resto è questione di tempo, investitori, convenzioni, opportunità. È il classico limbo amministrativo: abbastanza vago da non compromettere chi governa, abbastanza concreto da far temere a chi vive lì che il cambiamento arriverà comunque. E questa ambiguità, col passare dei mesi, si trasforma in tensione civica. A muoversi davvero, infatti, non è il Comune: è la città. Il comitato No Polo Logistico non si limita a dire “no”: studia, analizza, interroga, propone. Porta contributi formali al PGT, immagina scenari alternativi, analizza mappe e vincoli, parla con urbanisti ed esperti ambientali. Ha perfino elaborato idee che esulano dal classico dibattito “polo sì / polo no”: parchi multifunzionali, aree di ricerca, spazi pubblici capaci di restituire valore sociale invece di consumarlo. È raro vedere cittadinanza e associazioni produrre un lavoro così strutturato, ed è ancora più raro che un’amministrazione non colga l’occasione per aprire un tavolo ufficiale di confronto. Fin qui, invece, tutto scivola in una dimensione intermedia. Non c’è un rifiuto netto del progetto, ma non c’è nemmeno una visione alternativa che parta dal Comune. È un dialogo ostacolato non dalle idee, ma dal ritmo delle istituzioni, più lento, più opaco, più incline alla prudenza che alla partecipazione. I rischi – quelli reali, concreti – sono molti, e nessuno dei due schieramenti li nega. Un polo logistico significa traffico di mezzi pesanti, quindi nodi sulla viabilità già congestionata. Significa emissioni, rumore, orari notturni. Significa un impatto sulla scuola vicina: centinaia di studenti che ogni giorno attraversano strade frequentate da TIR non sono un dettaglio. Significa lavoro, sì, ma spesso lavoro precario, frammentato, difficile da programmare. E significa soprattutto una trasformazione irreversibile del paesaggio urbano. Un campo può tornare campo. Un capannone no. Non è questione di essere pro o contro la logistica. È questione di chiedersi se questo territorio abbia la capacità, l’infrastruttura, la visione per assorbire un insediamento del genere senza snaturarsi. E se chi governa abbia intenzione di gestire questo processo o lasciarlo fluire fino al punto in cui diventa inevitabile. La strategia attendista dell’amministrazione, a questo punto, è il fulcro della discussione. Ha un vantaggio chiaro: evita decisioni affrettate e lascia aperta la porta a un investimento potenzialmente rilevante. Ma ha anche un limite evidente: se non si governa il dibattito, il dibattito finisce per governare l’amministrazione. Il rischio non è solo la sfiducia: è la perdita di controllo sul processo decisionale. Perché in un contesto come questo, non basta dire “quando arriverà un progetto, coinvolgeremo i cittadini”. Il coinvolgimento non avviene a cose fatte: avviene quando le cose non sono ancora nemmeno sul tavolo. È lì che si costruiscono le scelte pubbliche. È lì che un’amministrazione mostra la propria idea di futuro. La domanda, allora, diventa inevitabile: chi decide davvero sul destino di quel terreno? È un’elaborazione comunale? È un interesse privato che bussa? È la Regione che indirizza? Oppure è un intreccio di tutti questi livelli, in cui nessuno vuole assumersi il peso dell’annuncio? Castano Primo non può vivere all’infinito in un eterno “forse”. Un polo logistico – anche solo come possibilità – è una scelta che ridisegna un territorio per una generazione intera. Se arriverà, cambierà in modo sostanziale paesaggi, abitudini, traffico, economia locale. Se non arriverà, qualcuno dovrà spiegare perché quel campo è rimasto sospeso così a lungo in un limbo urbanistico. Un’amministrazione non deve temere il confronto: deve guidarlo. Non deve aggirare le domande, ma rispondere. Non deve proteggersi dietro un “non c’è nulla”, ma mostrare tutto ciò che c’è, tutto ciò che potrebbe esserci, tutto ciò che si teme che ci sia. Castano merita chiarezza. E merita una visione. Non un elenco di rassicurazioni, non un rimbalzo di frasi prudenti, non un gioco di attendismo. Merita una scelta, o almeno un dibattito reale. Perché quando il futuro non viene governato, arriva comunque. E spesso arriva nella forma che si è meno pronti ad affrontare. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Perché in Italia anche tre chilometri di ponte diventano un confine invalicabile
In ingegneria, tre chilometri non rappresentano un’impresa epica. Sono una misura quasi modesta, il tipo di distanza che altrove si affronta con pragmatismo e continuità. Eppure in Italia quei tremila metri diventano un labirinto di interrogativi, esitazioni e contraddizioni, quasi fossero una sfida alla nostra stessa capacità di funzionare come sistema. È un fenomeno che non ha radici tecniche: nasce nella cultura amministrativa, nella politica, nelle abitudini istituzionali. Il ponte è solo un pretesto: il vero tema è come il Paese si comporta quando deve costruire qualcosa che richiede una visione lunga. Per capire la natura del problema basta guardare cosa è successo altrove. Il ponte dell’Øresund — Øresundsbron nel suo nome danese-svedese — collega Copenaghen a Malmö. Sedici chilometri tra viadotto, tunnel e un’isola artificiale creata dal nulla nel mezzo dello stretto. Due Stati diversi, due normative, due burocrazie, due lingue. Eppure il progetto ha seguito una linea retta: decisione politica, pianificazione, accordi binazionali, avvio dei lavori, completamento. Nessuno ha usato Øresundsbron come terreno di scontro permanente. Nessun governo l’ha impugnato per ribaltare la decisione del precedente. Non è diventato un trofeo, né una battaglia identitaria. È stato trattato per ciò che era: un’infrastruttura necessaria, da fare bene e in tempi certi. Øresund Bridge from the air in September 2015 — vista aerea del collegamento stradale/ferroviario tra Danimarca e Svezia, noto come Ponte di Øresund (o Øresundsbron), lungo circa 16 km in totale; foto scattata nel settembre 2015. Crediti: foto di Folke Bendtsen / Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0 (Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale). Mentre l’Europa settentrionale costruiva, in Asia si lavorava su scale ancora più monumentali. Il ponte Hong Kong–Zhuhai–Macau , con i suoi cinquantacinque chilometri di viadotti, tunnel sottomarini e isole artificiali, è un mostro ingegneristico affrontato in meno di dieci anni. Una struttura che attraversa corridoi marini affollati, zone soggette a tifoni, territori amministrativi diversi. Eppure la catena decisionale non si è inceppata. Là dove noi saremmo ancora a discutere la compatibilità di un pilone con una commissione paesaggistica, in Cina le fondamenta erano già state colate. West section of Hong Kong–Zhuhai–Macau Bridge (20180902174105) — sezione occidentale del collegamento autostradale-marina tra Hong Kong, Zhuhai e Macao, nella regione del Delta del Fiume delle Perle, Cina. Crediti: foto di Wikimedia user Youngmonkey / Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0 (Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale). Poi c’è il Giappone, che offre l’esempio più vicino a noi dal punto di vista culturale, democratico e procedurale, ma con una differenza abissale nel modo di affrontare la complessità. Il sistema di ponti del Seto-Ohashi , quasi tredici chilometri sospesi su acque profonde e ventose, è nato in un’area in cui il rischio sismico è una certezza quotidiana. Il ponte Akashi Kaikyō , con la sua campata centrale di quasi due chilometri, è stato costruito mentre il Paese affrontava alcuni dei terremoti più violenti del secolo scorso. Durante i lavori, un sisma spostò addirittura le torri principali di quasi un metro, costringendo a riprogettare gli elementi centrali dell’opera senza interrompere il processo. In Giappone si costruisce dentro la difficoltà, non contro di essa. Akashi Bridge / 明石海峡大橋 — ponte sospeso in Giappone, ripreso da un aeroplano nel dicembre 2005 — Foto di Kim Rötzel (caricata da Tysto) / Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 3.0 Unported (Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0). È qui che emerge la differenza con l’Italia. La morfologia del nostro Paese è complessa, certo: montagne vive, zone sismiche, frane, suoli difficili. Ma non è una peculiarità esclusiva. Esistono territori più instabili, più imprevedibili, più ostili. Eppure altrove si costruisce. La vera differenza non è geologica: è istituzionale. In Italia un ponte non deve attraversare solo un braccio di mare: deve attraversare una pianura sterminata di autorizzazioni, pareri, vincoli, ricorsi e incompatibilità. Ogni ente ha un potere di veto, pochi hanno un potere di avanzamento. Il risultato è un sistema in cui la tutela — legittima, doverosa — si è moltiplicata al punto da diventare un freno. La cultura amministrativa si è costruita sulla paura della firma, sulla difesa individuale, sulla preferenza per l’immobilità rispetto alla decisione. Dire “no” è sempre meno rischioso che dire “sì”. I dati non fanno sconti. In Italia, il tempo medio necessario per autorizzare una grande opera supera spesso la decade. Non per costruire: per autorizzare. I cantieri, quando finalmente aprono, vanno avanti. Il blocco è tutto nella fase preliminare, ingolfata da una sequenza di verifiche che raramente comunicano tra loro. Di fronte a questo scenario, i nostri tre chilometri diventano improvvisamente un Everest amministrativo. Poi c’è la politica, sempre instabile, sempre oscillante tra entusiasmi momentanei e ripensamenti improvvisi. Ogni cambio di governo porta con sé la tentazione di rimettere tutto in discussione. Le opere diventano argomenti di identità, simboli, vessilli, strumenti di comunicazione. Nascono più nei talk show che nei progetti esecutivi. In queste condizioni, persino un ponte relativamente breve diventa una vicenda generazionale. A completare il quadro c’è un’altra verità: buona parte del patrimonio infrastrutturale italiano è antico. L’urgenza di intervenire su ciò che già esiste — ponti, viadotti, gallerie — assorbe risorse, energie e tempo. La manutenzione continua è un dovere che non lascia spazio alla costruzione del nuovo, soprattutto quando il nuovo richiede processi lunghi e dispendiosi. Il problema, dunque, non è tecnico. Non lo è mai stato. L’Italia sa costruire: quando decide di farlo, lo fa bene. Ma non decide quasi mai in modo lineare. Non protegge chi decide. Non garantisce continuità a ciò che avvia. E così anche tre chilometri, la distanza più semplice per gli ingegneri, diventano un abisso per le istituzioni. Finché questo nodo non verrà sciolto, continueremo a guardare Øresundsbron, Seto-Ohashi, Akashi Kaikyō, Hong Kong–Zhuhai–Macau come opere di un mondo diverso. Non perché siano impossibili da replicare, ma perché per farlo servirebbe una capacità di governare i processi che oggi non possediamo più. La distanza fisica, in fondo, non è nulla. È la distanza amministrativa che non riusciamo mai ad attraversare. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- I Simpson realistici: quando Springfield diventa la nostra realtà
Immaginare i #Simpson in versione realistica significa togliere tutto ciò che li rendeva eterni: il giallo brillante, la leggerezza delle gag, il formato rassicurante da sitcom. Nel momento in cui la famiglia Simpson viene mostrata come una vera famiglia, in un salotto reale, con luci più scure e un’atmosfera low key, la favola comica si trasforma in un ritratto distopico della nostra quotidianità. Ed è qui che #Springfield smette di essere un luogo immaginario e inizia ad assomigliare pericolosamente al mondo in cui viviamo. #HomerSimpson, nella sua versione umana, non è più l’icona buffa che rimbalza tra un disastro e l’altro. Seduto sul divano, con la pancia pesante di stanchezza e anni di lavoro malpagato alla centrale, diventa l’immagine di un padre di famiglia che ha perso la leggerezza e si muove in una routine che consuma. Il suo sguardo non cerca più soluzioni comiche: cerca respiro, tregua, normalità. #MargeSimpson, con i suoi capelli blu trasformati in un peso concreto, incarna la madre che tiene insieme tutto senza far rumore. Nella Springfield animata sembrava indistruttibile; nella versione realistica mostra invece la fatica accumulata, il sonno perso, la responsabilità assorbita in silenzio. Tenere in braccio #Maggie è il suo modo di proteggere l’unica ancora innocente, il simbolo fragile di ciò che resta della famiglia. #BartSimpson, una volta il ragazzino ribelle e divertente, perde tutta la sua comicità quando lo trasporti nella vita reale. Un bambino agitato non fa ridere: preoccupa. Lo sguardo è più cupo, le occhiaie leggere raccontano una crescita veloce in una casa che non ha più scudi né filtri. Diventa il riflesso dei figli di oggi, incastrati tra caos, aspettative mancate e un futuro che non promette nulla. #LisaSimpson è la parte più tagliente di questa trasformazione. Nel cartone la sua intelligenza la rende brillante; nella realtà la rende pesante. Un genio bambino non è un personaggio comico: è una fragilità. La sua espressione consapevole, senza sorriso, racconta il peso di capire troppo e troppo presto, in un mondo che non ha più spazio per la sensibilità. Il salotto dei Simpson, identico nella disposizione ma immerso in luci scure, diventa una scena quasi cinematografica: il divano, la lampada e il quadro restano simboli, ma ora rappresentano una famiglia che non può più nascondersi dietro il filtro giallo. In questa versione realistica, Springfield non è un luogo fantastico: è un’istantanea della società contemporanea, dove la leggerezza è evaporata e la crisi è diventata la nuova normalità. Il significato di questa trasformazione è netto: quando togliamo il colore ai miti della cultura pop, scopriamo quanto ci somigliano. I Simpson realistici non fanno impressione perché sono strani, ma perché sono veri. Mostrano la stanchezza della working class, il vuoto lasciato dalle promesse non mantenute, la fragilità delle famiglie che resistono senza più ridere. Non sono loro a essere cambiati: è il mondo attorno a noi. La parte più distopica non è Springfield, ma il nostro presente visto senza filtri. In questa versione in carne e ossa, la famiglia Simpson non è più una parodia della società: è uno specchio fedele di ciò che siamo diventati. E forse è per questo che guardarla così fa più effetto di qualunque puntata. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Castano Primo e l’amministrazione Colombo: tra inno, passerelle e le vere questioni rimaste sul tavolo
Castano Primo non è Tripoli nel 1975, né la capitale di qualche dinastia ereditata per diritto divino, e non è nemmeno una branca alpina della Corea del Nord. È un comune lombardo, tranquillo, operoso, dove la gente si aspetta che il sindaco lavori, non che fondi una nuova religione civile. Eppure, sin dai primi giorni del suo mandato, il Sindaco Colombo ha imboccato una strada curiosa, quasi teatrale: quella del simbolismo. E il simbolo, come ogni leader con velleità di lasciare il segno, è arrivato subito, limpido come un monumento al proprio ego: l’inno di Castano. Non un progetto, non un piano regolatore, non un intervento sulle criticità già note — un inno. Ed è stato presentato con la serietà che si riserva alle costituzioni o alle rivoluzioni. Al punto da introdurre una liturgia che, per Castano, non s’era mai vista: all’inizio di assemblee e incontri pubblici, tutti in piedi, quando parte la musica. Una scena che in pochi secondi ti porta dalla sala civica di un comune di 11.000 abitanti alle coreografie obbligatorie di Pyongyang. La cosa buffa — o tragica, dipende da come la guardi — è che questo inno potrebbe anche essere stato oggetto di una delibera o di un atto formale , come qualcuno che frequenta gli uffici sa e riferisce. Ma questo non cambia la sostanza: la comunicazione è stata talmente confusa e sgraziata da rendere qualsiasi formalità un dettaglio. L’inno è stato imposto più come gesto simbolico che come scelta condivisa, una trovata da piccolo condottiero locale convinto che l’identità di un paese nasca per decreto musicale. E mentre Colombo si atteggia a direttore di una piccola parata civica, la gente rimane lì, in piedi, senza sapere se ridere o guardare per terra. Il punto, però, non è l’inno in sé. È ciò che l’inno copre. Perché, mentre si impone il rito collettivo, il paese resta fermo sulle questioni fondamentali — quelle che richiederebbero meno orchestra e più lavoro, più concretezza e meno autocelebrazione. Prendiamo la scuola. A Castano non si è perso un finanziamento da dieci lire o una burocrazia marginale. Si è perso un finanziamento di 500.000 euro destinato ai laboratori della primaria e secondaria di via Acerbi. Un’occasione enorme, un investimento già tracciato, che secondo l’ex sindaco Pignatiello è sfumato per mancanza di competenza e attenzione dell’attuale amministrazione. Mezzo milione volato via come niente, mentre nelle assemblee si ascolta un inno che non esiste da nessuna parte. E non basta. Alla scuola superiore, di recente, è crollato il controsoffitto in un’aula. Non una tragedia per miracolo. La competenza dell’edificio è della Città Metropolitana di Milano, questo va detto. Ma il Comune, sapendo bene cosa significa un crollo del genere, avrebbe dovuto sollecitare, pretendere risposte, alzare la voce. Invece Castano ha assistito a comunicati schivi, risposte lente, scaricabarile. I soffitti cadono, ma l’inno si suona. Poi c’è la vicenda grottesca del centro islamico. Una questione che avrebbe richiesto maturità istituzionale, prudenza politica, rispetto della comunità. È diventata invece una farsa, una sitcom di quart’ordine con polemiche, spifferi, accusine pubbliche e un rimpallo di responsabilità che sembrava scritto da un autore improvvisato. La narrazione intorno all’inaugurazione ha ricordato più un B-movie girato con 3.000 dollari che un processo di dialogo interreligioso degno di un’amministrazione adulta. E che dire dell’iniziativa per i commercianti? In un mondo normale, valorizzare il tessuto commerciale significa lavorare con professionisti, sviluppare strategie, creare un’identità economica coerente. A Castano, invece, funziona così: se un negoziante vuole “visibilità”, compila un modulo. Dopo qualche giorno si vede arrivare in negozio l’intera giunta, più messo comunale, più staff vario, in quello che pare un documentario amatoriale — per girare un video da postare su Facebook. Non c’è un piano, non c’è un obiettivo, non c’è una strategia. C’è solo la passerella: la giunta come troupe, il sindaco come influencer e il negoziante come comparsa forzata. Che poi, se proprio volevi un video professionale, ci sono agenzie che fanno solo questo per lavoro. Ma qui no: qui si improvvisa. E il polo logistico? Una bomba ambientale, urbanistica, sociale. Terreni agricoli compromessi, comitati sul piede di guerra, tensioni con Legambiente, mancanza di informazione trasparente. Una questione pesante, gigantesca, capace di cambiare per sempre il volto della città. Eppure la gestione della giunta Colombo è stata un pantano: reticenze, mezze spiegazioni, passi falsi, nessuna regia chiara. Si ascoltano più discussioni su Instagram che in consiglio comunale. Una scelta vista dalle opposizioni come “superficiale”, “poco competente”, “senza una visione”. E mentre tutto questo si accumula — finanziamenti persi, scuole che crollano, tensioni etniche, passerelle ridicole, progetti urbanistici enormi lasciati senza guida — arriva puntuale, come un temporale in agosto, la bordata dell’ex sindaco Pignatiello: “Colombo, è ora che inizi a lavorare davvero.” Non è un attacco. È una constatazione. La verità è che Castano Primo si ritrova con un’amministrazione più impegnata a mettere in scena che a mettere mano alle questioni reali. Si privilegia l’immagine, la cerimonia, il gesto simbolico — mentre gli atti amministrativi che contano procedono a singhiozzo o non procedono affatto. Si coltiva il personalismo, non la progettualità. Si gestisce la città come una scenografia, non come una responsabilità. E allora la domanda finale non può che essere questa: Che cosa rimane davvero di un inno, di mille video, di trenta passerelle, se poi metà delle questioni cruciali della città restano aperte, e l’altra metà si disfa sotto il peso della superficialità? Castano Primo merita un’amministrazione che lavori. Non un sindaco che cerca il suo piccolo posto nel pantheon dei leader in miniatura. Alla fine, la sensazione è sempre la stessa: un copione già visto, una trama riciclata, un vecchio nastro che continua a girare con attori che cambiano ma con la stessa, identica postura. Castano Primo non aveva bisogno dell’ennesima amministrazione innamorata della propria ombra, e invece eccoci qui, a fare i conti con un’altra giunta che confonde il potere con il palcoscenico, la politica con il riflettore, la gestione con la coreografia. E mentre il paese aspetta soluzioni, strategia, lucidità, ci ritroviamo con un inno non ufficiale (anche se forse qualche atto c’è), con passerelle imbarazzanti, con gaffe scolastiche, con tensioni gestite come una scenetta amatoriale, e con un polo logistico che avanza nonostante l’assenza di una linea chiara. Il tutto condito da una comunicazione che sembra voler mascherare ciò che manca davvero: il lavoro, quello vero, quello che non finisce in un video, quello che non produce applausi istantanei. 📌 Fonti e riferimenti ● Liberastampa – articolo sul finanziamento scolastico da 500.000 euro perso dalla giunta Colombo ● Liberastampa – articolo sulle critiche delle opposizioni dopo 18 mesi di amministrazione Colombo ● Ticinonotizie – notizia sul cedimento del controsoffitto alla scuola superiore di Castano Primo ● MalpensaNews – approfondimento sul progetto del polo logistico da 12 ettari e sul comitato cittadino ● Malpensa24 – resoconto delle polemiche politiche legate all’inaugurazione del centro islamico ● Discussioni e testimonianze raccolte nei gruppi cittadini di Castano Primo (aggregazione di dati social non strutturata) ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Quando la pausa pranzo diventa un incubo: il/la collega che telefona a tutta la famiglia
La pausa pranzo è quel momento che si apre come una crepa luminosa nella giornata, una sospensione sottile in cui la realtà sembra rallentare e l’aria, per una volta, si fa gentile. Non chiedi molto: solo un angolo di tregua, un po’ di silenzio, la possibilità di sederti, aprire il contenitore del pranzo e lasciarti avvolgere da quella piccola, preziosa armonia che si forma senza sforzo. C’è un rituale nel modo in cui ti sistemi, un gesto che ha qualcosa di antico: la forchetta che affonda nel cibo con calma, lo schermo del pc che si illumina con la promessa di un giornale da leggere, un paio di notizie, una scrollata innocente, magari qualche acquisto online che non farai mai. È un giardino segreto dove nessuno entra, un paesaggio silenzioso in cui i rumori si fanno ovattati, i neon sembrano trattenere il fiato e persino i pensieri camminano più piano. La pausa non è una pausa: è un rifugio. Ogni piccolo gesto contribuisce a creare quell’armonia fragile che scivola addosso come una stoffa leggera. Si sente la pace nei muscoli che lentamente si allentano, nelle spalle che abbandonano la rigidità, nel respiro che comincia a muoversi con un ritmo meno meccanico. La scrivania si trasforma in un’isola neutrale, un avamposto dove le pretese del mondo rimangono fuori a bussare senza essere ammesse. Una serenità così semplice che sembra quasi irreale. E proprio quando tutto sembra perfetto, quando il silenzio tocca la sua soglia più alta, quando la calma raggiunge quella purezza cristallina che si prova solo in quei rari momenti di equilibrio, ecco che accade ciò che nessun essere umano dovrebbe mai essere costretto a vivere. La detonazione. Non un rumore. Non una voce. Una deflagrazione. Il telefono del/della collega. Una parola sparata nell’aria come un proiettile, una vibrazione che ti attraversa il cranio e ti manda in frantumi la pace con la brutalità di un ordigno. In un secondo tutto crolla: la pausa si accartoccia, la tranquillità evapora, il silenzio si disintegra. E dentro quella frattura, dentro quel taglio improvviso, sai che sta per arrivare la valanga telefonica che travolgerà ogni cosa. Ti basta un istante per capire che è finita. La quiete non tornerà più. La voce del/della collega non entra: si insinua. Scivola tra un morso e l’altro come una goccia d’olio bollente caduta sulla pelle, e tu capisci subito che non è una semplice telefonata. È un’invasione. Un’infiltrazione sonora. Un assedio domestico portato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, davanti alla persona sbagliata: te. Parte sempre allo stesso modo, con quel «Ciaoooo» stiracchiato che somiglia a un’allarme antincendio, e da lì la traiettoria è una caduta libera nel baratro delle chiacchiere inutili. Prima la madre. Perché la madre è un obbligo biologico. «Hai preso il pane? No, il pane vero… quello buono… te l’ho detto mille volte…» La pausa si incrina. Poi arriva l’aggancio alla seconda linea emotiva: il partner. «Sì amore, sì, te l’ho detto, sì, dopo passo io… no amore, non così… no, devi fare come ti ho spiegato ieri… sì, proprio così… no, ascolta, ascolta bene…» La sua voce rimbalza come uno yo-yo lanciato da un sadico. Continui a masticare, ma ogni boccone perde sapore. Provi a concentrarti sullo schermo, a sfogliare una notizia, a salvarti in una pagina web come un naufrago aggrappato a un relitto, ma niente: il timbro della sua voce scava, gratta, appiccica. È come un moscerino chiuso in un barattolo: rimbalza ovunque, non si stanca, non si ferma. Il ritmo aumenta. Cambia interlocutore. «Ziaaa! Ciao zia! No, zia, ascolta… sì, ho visto il nipote… sì, sì, stava bene… no, non lo so se aveva la felpa blu o quella grigia… sì, sì, la stessa che aveva l’altra volta… no, non quella, l’altra… zia aspetta, fammi pensare…» Il mondo diventa una gigantesca puntata di una soap opera di cui non hai mai chiesto di conoscere la trama. Ogni dettaglio casalingo viene pronunciato con un entusiasmo quasi religioso, come se tu dovessi esserne coinvolto per forza. E mentre lui/lei continua a parlare, la pazienza ti scivola via come sabbia da una mano sudata. È un crescendo asfissiante. Non c’è ossigeno. Non c’è scampo. Senti il sangue nelle tempie, il rumore ovattato del fastidio puro che sale come febbre. E quando pensi che non possa andare oltre, arriva il colpo di grazia: «Sì, mamma… sì… lo so… la suocera oggi non sta bene… eh sì… sì, sì, lo so che ha quel problema… sì… sì, proprio lì… sì, mamma… sì, sì, lo so…» L’informazione che nessuno vorrebbe ascoltare, mai, in nessun mondo, in nessuna dimensione, arriva come una mazzata sulla nuca. Parla della suocera, dei suoi problemi gastrointestinali, con una naturalezza che sfiora la delinquenza sociale. Tu fissi il pc, ma non stai più leggendo niente. Sei prigioniero di quella voce. La pausa è morta. L’armonia è stata giustiziata in diretta. La telefonata continua, martellante, una grandinata di parole che non concede tregua. Cerchi di salvarti come puoi, tenti qualsiasi diversivo mentale pur di non essere trascinato in quel fiume di dettagli domestici non richiesti. Apri un articolo a caso, poi un altro, poi un altro ancora, ma la voce attraversa tutto, filtra ovunque, si insinua tra le sinapsi come muffa umida. Allora cerchi qualcosa di più estremo: un tutorial online di aramaico antico. Non per cultura, non per curiosità, ma come si ingoia un analgesico, nella speranza di stordire il cervello. Ripeti parole incomprensibili, tenti di memorizzarle, provi a tradurre mentalmente frasi apparentemente sagge, ma la voce del/della collega entra lo stesso nelle pieghe della grammatica semitica, e le sillabe sacre si sporcano di discussioni su pannolini e intestini delicati. Il fastidio sale. Ti aggrappi agli oggetti sulla scrivania come a boe in mare aperto. Osservi l’etichetta della bottiglietta dell’acqua, la leggi tutta, lentamente, due volte, tre volte. Poi passi alla tazza, al caricatore, al mouse, alla confezione di salviette igienizzanti. Le leggi al contrario, come un monaco tibetano in crisi mistica. Cerchi di tradurle in aramaico, nella speranza che l’antica lingua dei profeti possa proteggerti dal bombardamento fonico che arriva da due sedie più in là. Ma non c’è rito, non c’è mantra, non c’è religione che ti salvi. La scena del pannolino sporco della suocera — raccontata con quella naturalezza criminale, quella disinvoltura che sfiora l’attentato acustico — si è ormai incisa nella mente. È un’immagine che non vuoi, non cerchi, non desideri, ma che si siede davanti agli occhi come un’ombra sgradevole. Parli con un collega e la vedi. Guardi il monitor e la vedi. Ti volti verso la finestra e la vedi ancora, come un’icona blasfema che ha deciso di eleggere domicilio permanente nel tuo cervello. Ogni dialogo diventa un campo minato. Ogni frase viene filtrata da quell’immagine orrenda che non vuole più andarsene. E mentre il/la collega continua, imperterrito/a, a narrare la saga dei malesseri familiari, senti che la tua ultima briciola di sanità si aggrappa a un’immagine primordiale: andare da lui/lei, prendere il telefono privato — il suo, quello avvelenato dalle conversazioni tossiche — strapparglielo dalle mani con una grazia feroce e lanciarlo fuori dalla finestra con la solennità di un sacrificio agli dèi della quiete. Guardarlo cadere giù in un volo liberatorio e poi dirgli/le con voce ferma, limpida, finalmente sincera: «Chiudi quella fogna. La cacca della suocera non ci interessa.» Solo allora la pausa, forse, potrebbe tornare a somigliare a una pausa. Una parentesi fragile, salvata in extremis dall’olocausto telefonico quotidiano. E tu, superstite silenzioso, potresti rimettere in ordine la scrivania, respirare di nuovo e sperare che il pantheon degli uffici, un giorno, abbia pietà. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- La sinistra che ha perso il suo popolo: dal salotto alla periferia che non ascolta più
Negli ultimi vent’anni la sinistra italiana ha progressivamente smarrito il terreno sotto i piedi, e ciò che un tempo era la sua base identitaria – la classe operaia, i lavoratori, i ceti popolari – oggi è una landa politica abbandonata, conquistata senza resistenza da una destra che ha capito prima e meglio dove si stava spostando il vento sociale. Mentre gli operai cercano risposte su salari, affitti, precarietà, inflazione e sicurezza sul lavoro, la sinistra sembra chiusa in una stanza ovattata, impegnata in dibattiti autoreferenziali, concentrata su battaglie culturali che, pur legittime, non sono vissute come prioritarie da chi ogni mese deve far quadrare i conti. Non è questione di diritti civili contro temi economici: è questione di gerarchie. Quando la vita reale diventa complicata, la politica che ignora la fatica quotidiana perde credibilità. E la sinistra, invece di radicarsi dove brucia – fabbriche, periferie, mercati, trasporti, ospedali – si è ritirata nei suoi salotti buoni, diventando il punto di riferimento di un ceto urbano colto, progressista, che spesso conosce l’Italia più attraverso saggi e talk show che nelle sue forme materiali. In questo processo si è costruito un ecosistema culturale che a volte sembra una loggia massonica intellettuale: l inguaggio codificato, circoli chiusi, universi paralleli in cui chi non parla nel loro stesso modo viene visto come ignorante, reazionario, “non all’altezza”. È una forma di razzismo sociale al contrario: la convinzione di essere superiori perché si appartiene a un certo mondo. Così la sinistra non solo ha perso il popolo, ma ha iniziato a guardarlo con sospetto, come se fosse lui ad aver sbagliato strada. Nel frattempo la destra, con la sua comunicazione semplice, diretta, spesso brutale, è entrata dove la sinistra non andava più: ha parlato a chi lavora nei turni, a chi è precarizzato, a chi vive in quartieri che si sentono dimenticati. Ha mostrato presenza, ascolto, anche se in forma ruvida, e questo basta a spostare voti, perché la politica è sempre questione di chi c’è e chi non c’è. La sinistra invece continua a oscillare tra l’attivismo moralista e il progressismo salottiero, giudicando l’Italia reale come se fosse un ospite indesiderato. La verità è che il paese che un tempo rappresentava non ha smesso di esistere: ha solo smesso di riconoscerla. E ora la domanda più inquietante non è perché la sinistra abbia perso consenso, ma se abbia ancora voglia – o capacità – di parlare al suo popolo senza trattarlo da imputato. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Matteo Salvini e l’arte di non costruire: il ministro delle Infrastrutture sospeso tra annunci e nostalgie del Viminale
La porta del Ministero delle Infrastrutture si apre su un uomo che parla molto di opere e ne inaugura poche, un ministro che sembra vivere questo incarico come un lungo corridoio che porta altrove. Matteo Salvini, oggi titolare del MIT, conserva infatti una costante nostalgia del Viminale. Lo si intuisce dal tono, dai temi scelti, dai riflessi comunicativi che emergono puntuali quando i dossier tecnici diventano ingombranti. E proprio qui nasce la domanda che orienta questo articolo: il suo operato alle Infrastrutture è all’altezza delle promesse o siamo di fronte a un ministro sostanzialmente inconcludente? Per rispondere occorre fare ciò che raramente si fa nel dibattito pubblico: guardare i numeri, valutare gli avanzamenti reali, distinguere gli annunci dalle opere effettive. E qui il quadro comincia a farsi più opaco. L’“Allegato Infrastrutture 2025”, documento programmatico del MIT, elenca strategie, priorità, fabbisogni e mappe del Paese che vorremmo. Ma, di fatto, molte delle opere elencate sono ancora nella fase “di programmazione”, non di realizzazione. È un Paese di progetti annunciati, non di cantieri. Fonti indipendenti come il Conto Nazionale delle Infrastrutture e dei Trasporti confermano la stessa impressione: tanta pianificazione, poca esecuzione. La distanza tra euforia comunicativa e avanzamento fisico dei lavori è evidente. Il caso simbolico è il Ponte sullo Stretto di Messina. Salvini lo ha elevato a bandiera della sua concretezza amministrativa. Eppure, a oggi, il progetto non ha cantieri aperti. L’aumento dei costi stimati (dal progetto originario a una forbice più ampia e incerta) e la mancanza di un cronoprogramma realmente operativo lo collocano nel regno delle promesse storiche italiane. La sua utilità può essere dibattuta; la sua esistenza fisica, almeno per ora, no: non c’è. Un’opera che dovrebbe definire il profilo di un ministro delle Infrastrutture rimane un titolo di giornale. Passando ai trasporti, il quadro non migliora. Sul fronte ferroviario, la rete alta velocità continua a crescere lentamente. I problemi principali restano le tratte regionali, che rappresentano la vita quotidiana del Paese reale e sulle quali non si registra un salto di qualità significativo. L’ultimo rapporto ANSFISA mostra criticità persistenti sulla manutenzione e sulla sicurezza della rete secondaria, senza interventi di portata sistemica. Anche il trasporto aereo mostra più ombre che luci: gli investimenti aeroportuali avanzano a macchia di leopardo, senza una visione di lungo periodo capace di coordinare le scelte infrastrutturali con i flussi turistici e commerciali. L’Italia vola, ma non decolla. La sicurezza stradale merita un capitolo a sé. Secondo il rapporto congiunto ACI–ISTAT, nel 2024 gli incidenti stradali con lesioni sono aumentati del 4,1% rispetto all’anno precedente, mentre i morti sono diminuiti solo dello 0,3%. A fronte di questi dati, il ministero ha diffuso comunicati più ottimistici, ma basati su un perimetro limitato, privo delle segnalazioni delle polizie locali che rappresentano oltre il 60% dei rilievi. Una discrepanza che ha portato associazioni di settore e osservatori indipendenti a segnalare che i conti, semplicemente, non tornano. È un dettaglio tecnico, ma anche politico: chi guida un dicastero così pesante non può permettersi zone d’ombra nei numeri. Fin qui, il piano infrastrutturale. Ma c’è un secondo livello — quello comunicativo — che influenza profondamente il primo. Ogni volta che le questioni tecniche si fanno ingombranti, Salvini ricorre a un espediente noto: cambia tema . E il tema che sceglie è sempre lo stesso: migranti, islam, identità nazionale. È un pattern osservabile: all’emergere di criticità su dossier complessi (PNRR, RFI, ANAS, portualità), la conversazione pubblica viene spostata sui “pericoli” esterni. Il punto non è negare il diritto di un politico a parlare di immigrazione; è rilevare come questo diventi un meccanismo di aggiramento delle responsabilità amministrative. Il dato sugli sbarchi è emblematico. Al netto delle oscillazioni stagionali e geopolitiche, negli ultimi trimestri gli arrivi hanno mostrato un calo significativo rispetto ai picchi del passato recente. Ma la narrazione del “Paese sotto assedio” continua identica. Lo stesso vale per la questione del presepe: ciclicamente evocata, ciclicamente priva di riscontri. Le comunità migranti non hanno mai rappresentato una minaccia per la tradizione, né mostrato interesse nel farlo. È un argomento simbolico, utile a generare rumore quando la realtà delle infrastrutture richiede silenzio, tecnica, studio, lavoro. Il problema politico di fondo è questo: l’Italia ha bisogno di un ministro delle Infrastrutture che si dedichi alle infrastrutture. Che presidi i cantieri, che verifichi i cronoprogrammi, che metta ordine tra i mille rivoli dei finanziamenti pubblici. Un ministro che faccia il ministro, non il candidato permanente a un’altra carica. Perché il sospetto che Salvini viva il MIT come un passaggio obbligato verso il suo ritorno al Viminale non è solo suggestione: è una conclusione logica osservando le priorità comunicative, i temi trattati, le energie spese. Questo articolo non vuole stabilire cosa Salvini sia in assoluto, ma cosa risulta dalla sua gestione: tante parole, pochi risultati strutturali, molta comunicazione identitaria utilizzata come cortina fumogena quando i dati si fanno ostici. È una fotografia di metodo, non un attacco personale. L’Italia aspetta ancora un ministro capace di parlare meno e costruire di più. E questa, oggi, è la distanza che separa Matteo Salvini dai compiti del suo ruolo: un distacco che si misura nei ponti che non iniziano, nei treni che non migliorano, nei porti che non si modernizzano, nelle relazioni tecniche che continuano a raccontare un Paese sospeso. Ed è in questo spazio, tra ciò che annuncia e ciò che realizza, che si forma il profilo del ministro delle Infrastrutture inconcludente . 📌 Fonti e Riferimenti Articolo Matteo Salvini ● ACI–ISTAT – Incidenti stradali in Italia 2024 Rapporto ufficiale sull’andamento di incidenti, feriti e vittime nel territorio nazionale. ● MIT – Comunicato su incidentalità stradale (ottobre 2025) Nota del Ministero con dati parziali non comprendenti i rilievi delle Polizie Locali. ● ANCI Digitale – Analisi incidenti stradali 2024 Approfondimento che evidenzia le discrepanze tra i dati MIT e quelli completi ACI–ISTAT. ● Allegato Infrastrutture 2025 – MIT Documento programmatico su strategie, fabbisogni e stato delle opere infrastrutturali italiane. ● Conto Nazionale delle Infrastrutture e dei Trasporti (CNIT) – Edizione 2023–2024 Quadro aggiornato sugli investimenti e sulla situazione della mobilità e dei trasporti. ● ANSFISA – Report sulla sicurezza delle reti ferroviarie Analisi delle criticità persistenti nelle linee regionali e secondarie. ● SILOS – Stato di attuazione delle infrastrutture prioritarie (Luglio 2025) Rapporto tecnico sull’avanzamento reale dei progetti infrastrutturali e del PNRR. ● Ponte sullo Stretto di Messina – Documentazione tecnica e iter progettuale Dati aggiornati su costi, stato progettuale e assenza di cantieri attivi. ● Sistema portuale italiano – Analisi 2024–2025 Dossier che evidenzia disomogeneità negli investimenti e assenza di pianificazione strategica unitaria. ● Ministero dell’Interno – Cruscotto statistico sugli sbarchi Numeri ufficiali che confermano la diminuzione degli arrivi rispetto ai picchi recenti. ● Osservatori indipendenti – Analisi sull’uso politico del tema migratorio Studi che documentano la ricorrenza di narrative identitarie come diversivo comunicativo. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Italiani, safari e cecchini: quando “brava gente” andava a sparare sui civili in Bosnia
Il mito dell’innocenza italiana di fronte al nuovo orrore riemerso dai Balcani In questi giorni la giustizia italiana ha riaperto una ferita che molti fingevano chiusa: quella dei presunti “safari umani” organizzati durante la guerra di Bosnia, dove uomini facoltosi — anche italiani — avrebbero pagato per sparare sui civili di Sarajevo come fossero sagome da tiro a segno. È l’ipotesi su cui indaga la Procura di Milano, a partire da testimonianze, dossier e documentari che da anni denunciano il coinvolgimento di cittadini occidentali nei massacri del ’92-’95. Non è un romanzo: è l’ennesima pagina che un Paese senza memoria farà finta di non leggere. “Italiani brava gente.” Ce lo ripetiamo da decenni, come una litania autoassolutoria. Non importa che la storia ci smentisca di continuo: dall’Etiopia ai Balcani, dalle torture coloniali ai silenzi sulle guerre altrui, il mito resiste. È il nostro alibi nazionale: noi non facciamo il male, lo osserviamo . Ma stavolta, se le accuse si confermassero, non si tratterebbe solo di osservare. Si tratterebbe di partecipare . Pensateci: mentre Sarajevo era assediata, mentre donne e bambini correvano tra le macerie, qualcuno — forse con passaporto italiano — saliva sulle colline per “provare l’emozione del tiro”. Un weekend all’inferno, pagato come un pacchetto turistico. Gli stessi italiani che oggi si indignano sui social contro la violenza del mondo, ieri, a quanto pare, pagavano per assistervi in diretta. Il problema non è solo l’orrore dell’atto, ma il riflesso che rivela. Perché tutto questo è potuto accadere dentro la più comoda delle illusioni: quella di un’Italia buona, solidale, “diversa”. Invece siamo il Paese che ha trasformato il cinismo in normalità. Che costruisce la propria coscienza morale sulla rimozione sistematica. Siamo quelli che piangono i morti giusti e ignorano gli altri; quelli che vanno in missione di pace per sentirsi migliori, ma poi vendono armi a chi combatte. E ora eccolo, il nostro specchio. In Bosnia. Sporco, crepato, ma ancora riflettente. Ci rimanda l’immagine di un’Italia che non ha mai fatto i conti con il suo passato coloniale, né con la sua indifferenza nei confronti delle guerre degli altri. Un Paese che ama raccontarsi “neutrale”, ma solo perché non ha mai avuto il coraggio di scegliere da che parte stare. Il mito degli “italiani brava gente” è un inganno utile. Ci protegge dalla responsabilità. Ci fa credere che la violenza sia sempre altrove. Eppure, se oggi la magistratura deve indagare su italiani che avrebbero partecipato a una caccia all’uomo nei Balcani, allora non siamo più solo spettatori innocenti: siamo parte del mostro. Il rischio, come sempre, è che tutto finisca in silenzio. Qualche articolo indignato, qualche commento di rito, e poi il solito oblio. Ma ogni volta che lasciamo scivolare via una verità scomoda, firmiamo un pezzo di amnesia collettiva. È così che sopravvive il mito della “brava gente”: perché non c’è niente di più facile che dimenticare. E allora basta con le fiabe. Basta con la memoria selettiva. Gli italiani non sono né brava né cattiva gente: sono gente. Capace di tutto, come chiunque altro. Anche di salire su una collina, guardare una città sotto assedio e premere il grilletto. 📌 Fonti e link utili articolo: Italiani, safari e cecchini: quando “brava gente” andava a sparare sui civili in Bosnia Procura di Milano – Inchiesta sui presunti “safari umani” in Bosnia (2025) Documentario “Sarajevo Safari” di Miran Zupanič (2022) Il Post – L’indagine sui cecchini stranieri durante l’assedio di Sarajevo (2025) Le Monde – Des touristes armés à Sarajevo: l’horreur retrouvée (2024) ANSA – Bosnia, indagine su italiani coinvolti nei “safari” di guerra (2025) ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata. 🖼️ Donna piange sulla tomba del figlio nel cimitero Lav, Sarajevo, durante la guerra di Bosnia📷 Crediti fotografici: Mikhail Evstafiev 📅 Anno di scatto: 1992 🏷️ Licenza: Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0) © maxramponi.it | FAKE FREE 📌 Fonti e link utili: 📷 Wikimedia Commons – Evstafiev – Bosnia Sarajevo Woman Cries at Grave (1992)
- L'Europa che si è dimenticata di essere pacifica
La politica scellerata dell’Unione Europea sul riarmo C’è un rumore nuovo a Bruxelles, un suono metallico che rimbalza tra i palazzi della Commissione Europea e le stanze del Parlamento: è il rumore del riarmo. L’Unione Europea, nata per costruire la pace dopo due guerre mondiali, oggi fabbrica munizioni in nome della “difesa comune”. Da “mai più” siamo passati a “non abbastanza presto”. L’Europa che si vantava di aver trasformato la guerra in dialogo ora la reinventa come politica industriale. “Autonomia strategica”, “sicurezza europea”, “resilienza difensiva”: formule eleganti per nascondere una verità banale — stiamo tornando ad armare l’Europa, e lo facciamo applaudendo. Il Fondo Europeo per la Pace, paradosso vivente del linguaggio comunitario, finanzia armi e forniture militari per paesi “alleati”. È l’ossimoro perfetto: la pace che produce proiettili. L’Europa che un tempo investiva nell’Erasmus, nella ricerca e nel Green Deal oggi investe in proiettili da 155 mm e in linee di produzione militare. È la nuova economia del continente: la guerra come motore di crescita, la paura come incentivo fiscale. La guerra in Ucraina è stata il detonatore. L’Europa ha scoperto che la paura unisce più dell’ideale. I governi, incapaci di costruire un’unione politica, si sono rifugiati nell’unione militare: un’alleanza cementata non dai valori, ma dagli arsenali. Così la Germania ha annunciato il più grande piano di riarmo dal 1945, la Francia spinge per una “forza europea autonoma” (ma sotto comando francese, ça va sans dire), e l’Italia, come sempre, si limita a firmare e sorridere. Tutto questo si accompagna a una retorica impeccabile. “Difesa dei valori europei”, “protezione dei cittadini”, “stabilità continentale”. Ma dietro le parole si muovono miliardi. Le grandi industrie della difesa — Airbus, Leonardo, Rheinmetall, Thales — registrano utili record. Gli stessi governi che tagliano sulla sanità e sulla scuola, investono con entusiasmo nella produzione di missili. È la nuova moralità del continente: si salva ciò che si può vendere. Il linguaggio della politica europea sul riarmo è diventato una lingua separata, fatta di eufemismi, tecnicismi e sigle incomprensibili. “PESCO”, “EDIRPA”, “EUDIS”: sigle da manuale di contabilità della guerra. Ma la sostanza è chiara — l’Europa non difende più la pace, difende il proprio mercato. Ogni paese spende di più, non per convinzione ma per paura di restare indietro. E la paura, come sempre, è un ottimo carburante economico. Il vero problema è che questa trasformazione non è temporanea. Una volta costruita, l’industria delle armi non si smonta. Le fabbriche di missili non chiudono quando la pace torna: aspettano la prossima crisi. E la politica, che ha scoperto quanto sia comodo governare attraverso la minaccia, non rinuncerà facilmente a questa narrativa. Così la guerra diventa permanente: non esplode, ma ronza in sottofondo. È il sottofondo sonoro dell’Europa moderna — acciaio, paura e comunicati stampa. L’Unione Europea, quella che nel 2012 ricevette il Nobel per la Pace, oggi rischia di meritare un premio per la coerenza al contrario. La pace è diventata una parola di marketing, un’etichetta da applicare a ogni progetto d’armamento. L’Europa non vuole difendersi: vuole contare. E per contare nel mondo di oggi, devi avere un esercito, non un ideale. È così che l’Unione nata per superare i nazionalismi finisce per alimentarli di nuovo, solo con logo blu e dodici stelle. Dietro ogni discussione sui “valori comuni” si nasconde un vecchio riflesso: quello del continente che confonde la sicurezza con la forza, la dignità con il potere, la responsabilità con il controllo. La politica scellerata del riarmo UE non è una strategia di sopravvivenza: è un fallimento culturale. Significa rinunciare alla propria memoria per inseguire la logica del mercato delle armi. L’Europa dei diritti è diventata l’Europa dei droni. L’Europa della solidarietà, l’Europa dei contratti di fornitura. L’Europa dei popoli, quella dei budget militari. È un ribaltamento simbolico e morale che nessun discorso potrà giustificare. Abbiamo trasformato il “mai più” in un “forse ancora, ma meglio equipaggiati”. 📌 Fonti e link utili articolo: L'Europa che si è dimenticata di essere pacifica European Defence Agency – Defence Data 2024 (EDA, 2024) Fondo Europeo per la Pace – Consiglio dell’Unione Europea (2023) The Economist – Europe’s rush to rearm (2024) Le Monde – L’Union européenne et la tentation du réarmement (2023) Politico Europe – EU’s defense awakening: between autonomy and NATO dependency (2024) ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Ci capite qualcosa quando parla Elly Schlein?
Con Elly Schlein inauguro la sezione politica de Il Bestiario , quella che si aggiorna solo quando la natura offre un esemplare degno di studio. E lei lo è, eccome. Un ibrido raro: metà congresso progressista, metà seminario di filosofia morale. Schlein non parla — articola manifesti viventi . Le sue frasi sembrano redatte da un algoritmo educato a metà tra Greta Thunberg e Hannah Arendt, con un pizzico di app per il benessere mentale. È la prima segretaria donna del Partito Democratico, ma anche la prima che riesce a pronunciare “transizione ecologica equa e intersezionale” con la disinvoltura di chi ordina un cappuccino di soia. Ha l’aria da intellettuale fuori tempo massimo, il carisma di un file PDF e l’eloquenza di chi è convinta che parlare difficile equivalga a dire qualcosa di profondo.Quando appare in TV, il pubblico si divide: metà applaude per riflesso condizionato, l’altra metà chiede aiuto a ChatGPT per tradurre. Schlein è brillante, colta, cosmopolita. È nata a Lugano, ha sangue americano, una laurea in giurisprudenza e una dizione che sembra progettata per placare gli animi turbati dei talk show. È contro le disuguaglianze, la precarietà, le ingiustizie, le discriminazioni, la plastica, le guerre, e probabilmente anche contro i lunedì. Ogni suo intervento è un inno alla bontà universale, ma declinato in linguaggio normativo europeo. Dice “uguaglianza”, “lavoro dignitoso”, “inclusione” con la stessa naturalezza con cui altri direbbero “passami il sale”. E per un istante pensi che ci sia speranza. Poi finisce la frase, e ti accorgi che non hai capito se parlava di un disegno di legge o di una pubblicità progresso. È un po’ come guardare un trailer entusiasmante di un film che non uscirà mai. Il suo problema non è la mancanza di idee, ma l’eccesso di sintassi. È come se ogni concetto dovesse attraversare cinque livelli di astrazione prima di diventare comprensibile. “Serve un modello sostenibile di sviluppo territoriale inclusivo e resiliente” — traduzione: “bisogna piantarla di fare schifo”. Ma lei non può dirlo così. È troppo elegante, troppo istituzionale, troppo digitalmente empatica per sporcarsi la lingua con la realtà. Eppure la sua esistenza è un segnale. Schlein è la versione 3.0 della sinistra italiana: connessa, attenta, intersezionale, perfettamente calibrata per una generazione che ha più pronome che certezze. È l’icona di chi non si riconosce nei boomer della politica ma neanche nel populismo da bar. Solo che, come ogni software di nuova generazione, a volte crasha: la realtà italiana non è pronta per un’interfaccia così progressiva. In televisione la sua calma zen irrita i conduttori, nei comizi entusiasma i convertiti e confonde gli indecisi. È la leader perfetta per un partito che non sa più se essere socialista, liberal, radical chic o cooperativa di idee. Vuole cambiare tutto, ma deve farlo restando in un edificio che crolla a ogni scossone. Parla di futuro, ma deve farlo circondata da ex democristiani, amministratori regionali e fantasmi di Renzi. C’è chi la accusa di essere vaga, e forse lo è. Ma la verità è che non può essere altro: ogni frase deve sopravvivere a cento sensibilità, mille correnti, diecimila sfumature di politically correct. Il risultato è un linguaggio sospeso, etereo, che sfugge al significato per non urtare nessuno. Una neolingua progressista che dice tutto e niente, sempre con buone intenzioni. Eppure, qualcosa funziona. In un panorama politico popolato da urlatori, predicatori e improvvisati, Schlein ha il coraggio di non alzare la voce. È l’anti-Meloni per definizione: se Giorgia vibra come una chitarra elettrica, Elly suona come un pianoforte in una biblioteca. Il problema è che, in Italia, la gente va al concerto rock, non alla lezione di musicologia. Forse è questo il suo destino: essere un simbolo più che una leader, una promessa più che un progetto. Parla di giustizia, di diritti, di cambiamento, ma tutto sembra ancora in formato beta. È la sinistra che vuole essere moderna senza diventare mainstream, ribelle senza sembrare caotica, colta senza sembrare snob.Un paradosso vivente, affascinante e un po’ alieno. Per questo la Schleinia Verbosa merita di entrare di diritto nel Bestiario : creatura elegante, notturna, animata da nobilissimi intenti e da un lessico che nemmeno Google Traduttore osa correggere. Si nutre di consenso morale, vive in ecosistemi urbani a prevalenza elettiva e migra solo in periodo pre-elettorale. Non aggredisce, ma confonde. E questo, in politica, è un superpotere raro. In fondo, il problema non è Schlein. È che la politica italiana non è più in grado di parlare la lingua delle persone — e lei, che pure ci prova, finisce per sembrare una professoressa di filosofia recapitata per errore a un’assemblea condominiale. Ti ascolta con empatia, annuisce, e poi ti risponde in dialetto ONU. Ci capite qualcosa quando parla Elly Schlein? Forse sì. Ma solo se avete il tempo di tradurre, la pazienza di restare e la fede di credere che dietro a quelle parole ci sia ancora una sinistra da qualche parte. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Il post che ha fatto emergere il peggio: il caso Mamdani ed il razzismo made in Italy
New York ha eletto il suo primo sindaco musulmano, Zohran Mamdani . Figlio di immigrati ugandesi di origini indiane, giovane, progressista, socialista dichiarato, impegnato sui diritti civili e sull’inclusione sociale. Una storia che in molte parti del mondo è stata accolta come segno di maturità politica e di progresso culturale. Ma non in Italia. Qui, come spesso accade, la notizia è stata filtrata attraverso il prisma dell’ossessione identitaria. Quando Matteo Salvini ha scritto sui social: «Il primo sindaco islamico a New York. Nella città ferita dall’11 settembre hanno scelto un primo cittadino socialista, pro-Pal, pro-gender…» , non ha fatto solo un commento politico. Ha pronunciato una formula. Una di quelle frasi apparentemente innocue che spalancano porte su paure antiche, e che, come spesso accade, rivelano molto più su chi le scrive che su chi le ispira. Nel suo post, Salvini non parlava di programmi elettorali, di gestione urbana o di scelte amministrative. Parlava di identità. “Islamico”, “11 settembre”, “pro-gender”. Tre parole che, messe insieme, disegnano un messaggio preciso: il musulmano resta il simbolo della minaccia, il trauma collettivo resta un’arma politica, la diversità resta qualcosa da sospettare, non da comprendere. È una costruzione linguistica tipica della destra populista: ridurre la complessità a slogan, sostituire l’analisi con l’istinto, la discussione con il riflesso. Non importa che Mamdani sia nato trent’anni dopo gli eventi dell’11 settembre, né che New York, oggi, sia una delle città più aperte e multietniche del pianeta. L’importante è associare due concetti: islam e pericolo. È il modo più rapido per alimentare un pregiudizio, senza bisogno di pronunciare apertamente una frase razzista. Il razzismo in Italia funziona così: raramente urla, quasi mai si dichiara, ma s’insinua nel linguaggio. Vive nelle allusioni, nei sottintesi, nei “non sono razzista, ma…”. È un razzismo elegante, disinfettato, travestito da ironia. E quando a praticarlo è un leader politico, diventa un modello, un segnale. Il post di Salvini non è stato una gaffe, ma un’operazione perfettamente calcolata. Sapeva di ottenere approvazione da chi, da anni, si nutre di quel tipo di narrazione: quella che divide il mondo in “noi” e “loro”, dove “noi” siamo sempre le vittime innocenti e “loro” sempre il pericolo in agguato. È la stessa formula che viene usata contro i migranti, contro le minoranze, contro qualsiasi forma di alterità. E funziona, perché parla alla pancia di un Paese che non ha mai veramente fatto i conti con il proprio razzismo. Zohran Mamdani, con la sua vittoria, non è diventato solo sindaco di New York. È diventato, suo malgrado, una proiezione simbolica. Il suo nome è stato risucchiato dentro un dibattito che non lo riguarda, trasformato in pretesto per riaffermare stereotipi. È il destino di chi rappresenta il cambiamento: essere ridotto a bersaglio. La notizia della sua elezione avrebbe potuto aprire un discorso su integrazione, su meritocrazia, su politica progressista. Invece ha generato un riflesso identitario che, in Italia, è diventato quasi automatico. Salvini ha semplicemente detto ciò che molti pensano e non dicono. E il fatto che possa dirlo senza conseguenze è la misura esatta di quanto il razzismo, nel nostro Paese, sia ormai interiorizzato. Non si tratta solo di un post. Si tratta del linguaggio che usiamo. Ogni parola ha un peso, e chi ha potere mediatico ha la responsabilità di scegliere con cura. Dire “sindaco musulmano” invece di “nuovo sindaco di New York” non è un dettaglio: è un atto politico. Significa fissare l’identità come primo elemento di giudizio, annullando la persona, il merito, il contesto. Significa ricordare che, nel dibattito pubblico, non contano i fatti ma le appartenenze. E in questo gioco di specchi la realtà si deforma, il pensiero critico muore e il pregiudizio si trasforma in normalità. Il razzismo contemporaneo non ha più bisogno di bandiere o di insulti plateali. È sufficiente una tastiera, un social network e un linguaggio calibrato per evocare senza dire. È il razzismo 2.0, quello che si diffonde attraverso la complicità di chi condivide, di chi commenta con un sorriso, di chi pensa che “in fondo non ha detto niente di male”. Ma quel “niente di male” è esattamente il problema. È lì che si annida la legittimazione del disprezzo. E quando arriva dall’alto, da chi siede al governo o da chi rappresenta milioni di persone, diventa sistema. L’Italia ha un problema di linguaggio, e il linguaggio, quando si deteriora, trascina con sé la realtà. Se per descrivere un evento storico come un’elezione serve ricordare un attentato terroristico di ventiquattro anni prima, significa che il dibattito è morto. Che non esiste più distinzione tra cronaca e propaganda. Che il razzismo non è un residuo del passato, ma un dispositivo politico attivo. Il post di Salvini su Mamdani è un esempio perfetto di questa patologia: un pensiero breve, calibrato per ottenere consenso facile, costruito su tre elementi che evocano paura, identità e sospetto. È l’algoritmo della discriminazione. New York, intanto, ha scelto. Ha scelto un sindaco giovane, capace, laico, inclusivo. L’Italia, invece, ha scelto di reagire con diffidenza. Forse perché la diversità ci spaventa più della mediocrità. Forse perché preferiamo credere che la nostra identità sia fragile e vada difesa anche quando non è minacciata. Forse perché il razzismo, nel nostro Paese, è la più comoda delle abitudini. In fondo è rassicurante: divide il mondo in bianco e nero, e ci risparmia la fatica di pensare. Ma la verità è che nessuno perde qualcosa se un musulmano diventa sindaco di New York. Anzi, il mondo guadagna qualcosa: un segnale che la storia può ancora sorprenderci, che la politica può ancora avere il coraggio di scegliere chi unisce invece di chi divide. E se in Italia quel segnale non arriva, è perché abbiamo deciso di tenerci stretti i nostri pregiudizi, come se ci definissero meglio della nostra intelligenza. Matteo Salvini ha detto la sua. Ma, ancora una volta, il suo linguaggio ha svelato più dell’oggetto del commento: ha svelato un Paese che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi. Il razzismo in Italia non nasce dai post, ma trova nei post il suo ecosistema ideale. E mentre il mondo si muove, noi restiamo fermi, prigionieri di parole tossiche travestite da opinioni. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Il Muro di Berlino è caduto ma l'Europa si è ricostruita addosso
Il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino crollò sotto il peso dell’entusiasmo e della noia. Le televisioni del mondo mostrarono abbracci, pianti, martelli e scalpelli, la gente che ballava sui blocchi di cemento come se la Storia fosse finalmente finita. Tutti parlarono di libertà, di un continente riunificato, di pace eterna. Era l’alba di un mondo senza frontiere, dicevano. Solo che, come sempre, l’alba durò poco. Appena spenti i flash dei fotografi, l’Europa si è ricostruita addosso un’altra serie di muri, meno visibili ma molto più solidi. Il primo è arrivato nei Balcani. Appena tre anni dopo il crollo del Muro, il continente che si era vantato di aver sconfitto la divisione entrava in una guerra civile alle porte di casa. Jugoslavia, Sarajevo, Srebrenica: il massacro trasmesso in diretta, mentre l’Europa guardava distratta, convinta che le guerre vere non esistessero più. Era bastato un decennio per trasformare l’euforia del 1989 nella rassegnazione del 1999. Poi sono arrivati i nuovi muri, quelli in acciaio e filo spinato, costruiti non per fermare eserciti, ma esseri umani. Dall’Ungheria alla Polonia, dal Mediterraneo ai porti italiani, l’Europa che si era vantata di abbattere barriere è diventata campionessa nel costruirne di nuove. Le chiamiamo “difese dei confini”, ma servono solo a tranquillizzare le coscienze: un modo elegante per non vedere chi muore affogato o respinto in nome della sicurezza. Nel frattempo, la NATO, che doveva essere un’alleanza difensiva, è diventata un marchio di guerra preventiva. La chiamano “politica di deterrenza”, ma sembra più una politica di provocazione: basi ovunque, missili piazzati sempre più a est, spese militari che crescono come se la guerra fosse una forma di progresso. E chi non si allinea viene etichettato come filo-russo, filo-cinese o filo-qualcosa. La libertà, oggi, passa attraverso la fedeltà. L’Europa del dopo Muro non è più una casa comune, ma un condominio litigioso con un amministratore americano e troppi inquilini obbedienti. La Russia è tornata a essere il nemico perfetto, l’Est il confine da militarizzare, l’idea di pace un fastidio da rimandare. E intanto ci raccontiamo che “serve difendersi”, dimenticando che ogni guerra comincia proprio da lì. Abbiamo sostituito l’ideologia con l’economia, la solidarietà con il mercato, l’identità con la paura. Ogni volta che un muro cade, ne costruiamo un altro: invisibile, ma efficace. Si chiama disuguaglianza, burocrazia, frontiera digitale. Il paradosso è che l’Europa non ha più bisogno di muri per essere divisa: bastano gli algoritmi, le crisi energetiche, i governi che cambiano bandiera a seconda del vento. Trentasei anni dopo, il Muro di Berlino è diventato un souvenir per turisti, un pezzo di cemento da vendere su eBay. Ma il vero muro è dentro la testa di chi ancora crede che libertà significhi essere parte del blocco giusto. Il 1989 ci ha insegnato una lezione che non abbiamo voluto imparare: i muri non cadono mai del tutto, cambiano solo geografia. Oggi li chiamiamo “strategie di sicurezza”, “piani di difesa”, “politiche di contenimento”. Ma restano muri, costruiti per proteggere un’idea di Europa che non esiste più. Un continente che ha perso la capacità di pensare in termini umani, che si nasconde dietro la parola “valori” per giustificare tutto: le guerre, le sanzioni, le omissioni. Il muro è caduto, sì, ma noi no. Siamo ancora qui, divisi, impauriti, convinti di essere liberi solo perché abbiamo un passaporto blu e un’opinione pronta. Forse la Storia non è finita nel 1989. Forse, semplicemente, ha cambiato scenografia. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.













