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- Piano di Pace Ucraina-Russia: Analisi Ironica dei 28 Punti che Premiano l'Aggressione
È finalmente arrivato il piano di pace Ucraina-Russia che dovrebbe risolvere tre anni di guerra, migliaia di morti e un'Europa in ginocchio. Ventotto punti di pura diplomazia che farebbero impallidire i negoziatori del Congresso di Vienna, se non fosse per un piccolo dettaglio: sembra scritto consultando principalmente Mosca e dimenticando di invitare Kiev al tavolo. Ma andiamo con ordine, perché questo capolavoro di realpolitik merita un'analisi approfondita, possibilmente accompagnata da un buon bicchiere di vodka russa, visto che è l'unica che può davvero brindare. Il piano di pace Ucraina-Russia comincia rassicurandoci: la sovranità dell'Ucraina sarà confermata. Che sollievo! Per un momento avevamo temuto che dopo tre anni di conflitto qualcuno potesse dimenticarsi che l'Ucraina è un paese sovrano. Naturalmente, questa sovranità riguarderà circa l'ottanta per cento del territorio originale, ma i dettagli sono noiosi. Il documento promette anche di risolvere tutte le ambiguità degli ultimi trent'anni, quelle sciocchezze come l'annessione della Crimea, il supporto ai separatisti, l'abbattimento del volo MH17, e quella volta che la Russia promise di rispettare l'integrità territoriale ucraina in cambio delle armi nucleari. Ma sono dettagli, acqua passata. Amnesia selettiva: il vero fondamento della diplomazia moderna. Ed eccoci al nocciolo dell'accordo Russia-Ucraina, dove le belle parole sulla sovranità si scontrano con la geografia brutale. Crimea, Lugansk e Donetsk saranno riconosciute come russe, anche dagli Stati Uniti. Kherson e Zaporizhzhia congelate lungo la linea di contatto. In pratica, la Russia tiene tutto ciò che le interessa: i porti strategici sul Mar Nero, il Donbass industriale, e un corridoio terrestre tra Russia e Crimea. L'Ucraina recupera alcuni territori che Mosca aveva occupato probabilmente solo per usarli come merce di scambio. È come se ti rubassero la casa e dopo tre anni ti restituissero il garage, tenendosi salotto, cucina e camere da letto, e tu dovessi essere grato. La ciliegina sulla torta? La centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata dalla Russia e usata come base militare rischiando un disastro continentale, produrrà elettricità divisa al cinquanta per cento tra i due paesi. Quindi invadi, occupi una centrale nucleare altrui, la usi per scopi militari, e alla fine ottieni metà dell'elettricità. È un po' come se qualcuno ti rubasse l'auto e poi un giudice stabilisse che la macchina è sua per metà. Giustizia poetica. Il piano di pace Ucraina-Russia prevede che Kiev faccia una serie di "piccole" concessioni sulla sicurezza. L'esercito ucraino ridotto a seicentomila unità, perché si sa che un paese appena invaso ha bisogno soprattutto di sentirsi vulnerabile. L'impegno costituzionale a non entrare mai nella NATO, perché niente dice "paese sovrano" come inserire nella legge fondamentale cosa NON puoi fare su pressione del vicino aggressivo. E ovviamente niente truppe NATO sul territorio ucraino. La NATO schiererà i suoi aerei in Polonia, così potranno arrivare in Ucraina in dieci minuti invece di otto. Un deterrente formidabile che sicuramente farà tremare il Cremlino. Gli Stati Uniti riceveranno pure un compenso per fornire garanzie di sicurezza. Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dirlo ad alta voce: la sicurezza internazionale è un servizio a pagamento, non una questione di principi. È bello vedere che dopo decenni di retorica sulla difesa della democrazia siamo arrivati al punto: quanto paghi? E se l'Ucraina osa lanciare un missile su Mosca "senza una valida ragione", la garanzia decade. Notate il "senza una valida ragione", che apre scenari interpretativi affascinanti. Se la Russia invade di nuovo ma Kiev reagisce troppo energicamente, perde la protezione. Praticamente devi difenderti, ma non troppo, altrimenti sono problemi tuoi. Mentre l'Ucraina perde territorio, sicurezza e sovranità, il piano Russia-Ucraina riserva a Mosca un trattamento da red carpet. La Russia verrà reintegrata nell'economia mondiale, tornerà nel G8, otterrà la revoca delle sanzioni e firmerà accordi economici di lungo termine con gli Stati Uniti. Praticamente invadi un paese sovrano, causi migliaia di morti, violi il diritto internazionale, e vieni premiato con il ritorno nella comunità delle nazioni civilizzate. È un messaggio chiaro per chiunque abbia ambizioni territoriali: l'aggressione paga, basta essere abbastanza grandi e avere armi nucleari. La Russia sancirà pure per legge la sua politica di non aggressione verso Europa e Ucraina. Perché si sa che gli stati che invadono i vicini sono sempre molto rispettosi delle proprie leggi interne. È come chiedere a un rapinatore di banche di promettere per iscritto che non lo farà più. Tecnicamente hai fatto qualcosa, ma il valore pratico è discutibile. Il piano di pace Ucraina-Russia promette un potente pacchetto per ricostruire il paese devastato. Distruggiamo tutto e poi lo ricostruiamo: è un modello economico brillante, la teoria della finestra rotta applicata su scala nazionale. La Banca Mondiale deve essere entusiasta: finalmente qualcuno ha trovato il modo di creare domanda di prestiti internazionali attraverso una guerra di logoramento triennale. Ma la vera chicca è nei dettagli finanziari: cento miliardi di dollari di beni russi congelati saranno investiti in progetti per ricostruire l'Ucraina, ma gli Stati Uniti si prendono il cinquanta per cento dei profitti. Avete capito bene: la Russia invade, l'Occidente congela i suoi beni, usa quei beni per ricostruire ciò che Mosca ha distrutto, e Washington ci guadagna metà dei profitti. È acrobazia finanziaria degna di Wall Street. Hanno trasformato un'aggressione militare in un'opportunità di investimento. L'Europa aggiungerà altri cento miliardi, la Banca Mondiale preparerà programmi di finanziamento, e tutti saranno felici. Tutti tranne gli ucraini, ovviamente, che dovranno vivere su un territorio ridotto, con un'economia distrutta e il debito della ricostruzione da ripagare. Ma almeno potranno esportare grano in Europa con accesso preferenziale mentre aspettano di entrare nell'UE, cosa che probabilmente non accadrà mai perché la Francia ha paura della concorrenza agricola e l'Olanda non vuole altri paesi che votano ai referendum. L'accordo Russia-Ucraina prevede che Kiev riceva "garanzie di sicurezza affidabili". Affidabili come quelle del Memorandum di Budapest del 1994, quando l'Ucraina rinunciò al terzo arsenale nucleare più grande del mondo in cambio di garanzie da Russia, Stati Uniti e Regno Unito. Garanzie così solide che vent'anni dopo la Russia invase la Crimea e nessuno mosse un dito. Ma stavolta sarà diverso, giurato. Le garanzie versione 2025 sono come l'iPhone nuovo: stesse funzioni di base, ma con un numero più alto che le fa sembrare migliori. Il meccanismo di controllo? Un Consiglio di pace presieduto da Donald Trump che imporrà sanzioni in caso di violazioni. Quindi l'enforcement è affidato a un presidente che tra quattro anni potrebbe non esserci più, e le cui sanzioni possono essere aggirate, ignorate o revocate dal successore. È come mettere un cerotto sulla falla del Titanic: tecnicamente hai fatto qualcosa, ma non cambierà il risultato finale. Il punto più cinico del piano di pace Ucraina-Russia è probabilmente l'amnistia totale per tutti. Nessun risarcimento, nessuna denuncia futura. I crimini di guerra? Dimenticati. Le violazioni del diritto internazionale? Acqua passata. Le fosse comuni, le torture, i bombardamenti di ospedali e scuole, le deportazioni forzate di bambini? Tutto perdonato nell'interesse della pace. È un messaggio cristallino: se hai abbastanza potere, puoi fare quello che vuoi e poi negoziare l'impunità. La giustizia internazionale è solo per i perdenti e i paesi piccoli senza armi nucleari. Ci saranno pure programmi educativi per promuovere comprensione e tolleranza reciproca tra i due popoli. Fantastico! Dopo aver bombardato scuole, distrutto città e condotto propaganda sistematica dipingendo l'avversario come nazista e minaccia esistenziale, la soluzione è organizzare seminari sulla tolleranza. Magari con esercizi di team building. Funzionerà sicuramente, basta chiedere a tutte le altre situazioni storiche in cui aggressore e aggredito sono diventati migliori amici dopo qualche corso motivazionale. Questo piano Russia-Ucraina non è un accordo di pace, è un atto di resa mascherato da diplomazia. Lo squilibrio tra le concessioni è talmente evidente che servirebbe un atleta olimpionico di ginnastica mentale per sostenere che si tratta di un compromesso equo. La Russia ottiene territorio, riconoscimento internazionale, reintegrazione economica, revoca sanzioni, e pure metà dei profitti sulla ricostruzione del paese che ha devastato. L'Ucraina ottiene promesse vaghe, garanzie già dimostratesi inutili in passato, e la prospettiva di vendere grano mentre aspetta per sempre di entrare nell'Unione Europea. Il messaggio che questo accordo Ucraina-Russia invia al mondo è terrificante: l'aggressione paga. Se sei abbastanza grande, abbastanza forte, e hai armi nucleari, puoi invadere un vicino, distruggere città, causare migliaia di morti, e poi sederti al tavolo delle trattative e ottenere legittimazione internazionale per i tuoi crimini. I trattati internazionali, le norme sul diritto internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, sono carta straccia quando si scontrano con la realpolitik delle grandi potenze. Taiwan guarda questo piano di pace Ucraina-Russia e si chiede se le garanzie americane valgano qualcosa. I Paesi baltici si domandano se l'articolo 5 della NATO sia più affidabile del Memorandum di Budapest. La Moldova osserva nervosamente la Transnistria. La Georgia ricorda il 2008 e trae le sue conclusioni. Tutti questi paesi stanno imparando la stessa lezione brutale: o hai le armi nucleari, o hai un esercito abbastanza forte da difenderti da solo, o sei alla mercé dei giochi di potere delle grandi nazioni. Le alleanze, i trattati, le garanzie internazionali sono utili finché conviene, ma quando la situazione si complica, ciascuno guarda ai propri interessi. Gli interessi dietro questo piano sono evidenti: gli Stati Uniti vogliono chiudere la questione ucraina per concentrarsi su altre priorità, principalmente la Cina. La Russia vuole consolidare le conquiste territoriali e tornare a essere un attore rispettato sulla scena internazionale. L'Europa vorrebbe dire qualcosa ma è divisa, dipendente energeticamente, e fondamentalmente irrilevante in questo grande gioco. E l'Ucraina? L'Ucraina dovrebbe semplicemente accettare il verdetto, ringraziare per le briciole, e prepararsi a convivere con un vicino che ha dimostrato di poter fare ciò che vuole impunemente. Questo piano di pace Ucraina-Russia verrà probabilmente venduto all'opinione pubblica occidentale come grande successo diplomatico. Diranno che la guerra è finita, che si è evitata l'escalation nucleare, che tutti hanno fatto sacrifici per la pace. I media stancheranno il pubblico con analisi su quanto sia stata brava la diplomazia a trovare un compromesso. Si organizzeranno cerimonie di firma con strette di mano e sorrisi di circostanza. E tra qualche anno, quando tutti avranno dimenticato i dettagli e ricorderanno solo che la guerra in Ucraina è finita, questo accordo sarà citato come esempio di come la diplomazia possa risolvere anche i conflitti più difficili. Ma la realtà è profondamente diversa da questa narrazione rassicurante. Questo non è un accordo di pace, è una capitolazione. Non è diplomazia, è la legge del più forte travestita da negoziato. E il precedente che stabilisce è pericoloso per chiunque creda che l'ordine internazionale dovrebbe basarsi su regole condivise e non sulla capacità di imporre la propria volontà con la forza militare. Forse tra cent'anni, quando gli storici analizzeranno questo periodo con il distacco che solo il tempo può dare, il piano Russia-Ucraina non verrà ricordato come l'accordo che portò finalmente la pace in Europa orientale, ma come il momento decisivo in cui l'Occidente decise che i principi erano meno importanti della convenienza, che la giustizia internazionale era un lusso che non poteva più permettersi, e che le regole del diritto internazionale valevano solo quando non costavano troppo da far rispettare. E tutti vissero felici e contenti. Tranne gli ucraini, ovviamente. Ma quelli tanto non avevano voce in capitolo fin dall'inizio.
- Tilly Norwood: l’attrice che non esiste e che recita meglio di noi
Tilly Norwood — immagine promozionale della prima attrice generata interamente tramite intelligenza artificiale, creata dalla divisione Xicoia di Particle6; ritratto utilizzato per la presentazione ufficiale del progetto nel 2025. Crediti: immagine di Xicoia / Particle6, tramite Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0 (Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale). C’è un momento nella storia in cui capisci che il sipario è cambiato senza che nessuno abbia avuto il tempo di applaudire. Non succede con un annuncio solenne o un red carpet, ma in silenzio, tra lampade fredde e server che vibrano nel buio. È in quel silenzio che nasce lei: Tilly Norwood , l’attrice che non invecchia, non respira e non sbaglia una scena, l’attrice che non esiste e che proprio per questo rischia di recitare meglio di tutti noi. Il suo volto viene assemblato in una stanza che non odora di trucco né di sudore di set. Nessun casting, nessun regista che l’ha notata in un teatro di periferia. Solo codici, parametri, modelli, linee di comando. Una creatura digitale concepita da Xicoia, la divisione AI di Particle6, lanciata nel mondo reale come se fosse una rivelazione, o forse una provocazione. Tilly ha la bellezza chirurgica che nessuna attrice umana potrebbe mantenere: occhi calibrati per generare fiducia, una malinconia sintetica posata con la lentezza di un fiocco di neve su una città addormentata, un sorriso che non svela stanchezza né storia, perché storia non ne ha. È vuota e quindi perfetta, come una pagina bianca che non si ribella al proprio autore. Questo non le impedisce di conquistare Instagram come una pianta infestante: foto, pose, set immaginari, tutti così credibili da sembrare scattati da qualcuno che un passato ce l’ha davvero. E invece no: Tilly non ha fatto scuole di teatro, non ha conosciuto fallimenti, non ha mai tremato davanti a un provino. Non conosce ansia né fame né ambizione. Fa quello che deve fare, sempre uguale, senza sbavature. Come una macchina. Anzi: in quanto macchina. E il problema è proprio questo, che funziona. Hollywood l’ha capita subito, questa faccenda. Gli studios si sono lasciati sedurre dall’idea di un’attrice che non chiede cachet, non firma contratti, non accusa malori durante le riprese. SAG-AFTRA, il sindacato degli attori, ha provato a fare muro dichiarando che Tilly “non è un’attrice, è un personaggio generato da computer”, ma la frase suona come una difesa stanca, un soldato che urla contro un carro armato in avanzata. Il cinema è nato sui corpi, sulle fragilità, sulle imperfezioni. La sua magia vive nei silenzi imbarazzati, nelle pause respirate, negli errori che diventano scene iconiche. Ora, improvvisamente, qualcuno propone un interprete che non porta nulla di tutto questo: una presenza senza rischio, una recitazione che non dipende dalla vita vissuta ma da ciò che un algoritmo ritiene verosimile. E fa paura perché funziona meglio del previsto. Nel volto senza tempo di Tilly c’è una verità più grande: il cinema sta entrando in un’epoca in cui la carne non è più necessaria, dove la fragilità non è un pregio ma un costo, dove la nostalgia per il mestiere verrà archiviata come un capriccio romantico. È un mondo dove gli attori rischiano di diventare un ornamento, non un pilastro. Ma la vera domanda, quella che nessuno vuole pronunciare, è semplice e spietata: che differenza fa, alla fine, se chi guarda non distingue più l’artificio dalla vita? Tilly intanto avanza. Non chiede permesso. Non chiede niente. Sorride con la calma di chi è stato programmato per piacere. Non ha scheletri nell’armadio perché non ha un armadio. Non ha opinioni politiche, non twitta commenti scomodi, non apre polemiche su Instagram. È pulita, liscia, impossibile da gestire perché non devi gestirla. Sembra una creatura nata per un film distopico e invece è già qui, pronta per un contratto che non firmerà mai. Forse il cinema non morirà, ma qualcosa sì. Qualcosa che non sappiamo nominare bene. Quel legame imperfetto tra attore e spettatore, quell’alchimia irripetibile fatta di carne, fiato, errori, tremori. L’umanità. Tilly Norwood non vuole rubarcela: non può volere nulla. Ma il mondo che l’ha creata è pronto a farlo. E mentre noi discutiamo, indignati e nostalgici, lei resta lì, impeccabile come neve che non si scioglie mai: la prima attrice immortale della storia. E la più inquietante. 📌 Nota: “Tilly Norwood” (Wikipedia, 2025) è una voce dedicata alla prima attrice generata interamente da intelligenza artificiale, creata dalla divisione Xicoia della società Particle6, fondata da Eline Van der Velden. Secondo la pagina, Norwood è stata presentata al Zurich Film Festival come “attrice digitale” pensata per produzioni cinematografiche e contenuti media, generando un ampio dibattito sulle implicazioni etiche e professionali dell’uso di performer sintetici. Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Tilly_Norwood
- Il futuro è Made in China? Analisi geopolitica dell’ascesa di Pechino
Il mondo si chiede se il futuro sarà “Made in China” , ma la domanda è già superata: la Cina sta ridisegnando gli equilibri globali attraverso una strategia a lungo termine che combina potere economico, influenza tecnologica e ambizioni geopolitiche senza precedenti. Questo non è un pronostico: è un processo in corso sotto gli occhi di tutti. Pechino sta consolidando la propria posizione di superpotenza attraverso la Belt and Road Initiative, una rete immensa di porti, ferrovie, corridoi economici e infrastrutture che lega Asia, Africa, Medio Oriente e parte dell’Europa. Non è solo un progetto di sviluppo, ma un meccanismo di dipendenza economica. La Cina non conquista territori: costruisce vincoli, affitta porti strategici, finanzia governi indebitati e diventa indispensabile nelle catene logistiche globali. È un’espansione silenziosa, ma chirurgica, che sta trasformando interi continenti. Sul fronte tecnologico la Cina non è più un imitatore. È una potenza innovativa. Shenzen ha superato molte capitali occidentali come centro di ricerca e sviluppo, e aziende come Huawei, BYD e CATL guidano settori strategici come il 5G, le auto elettriche, le batterie al litio e l’intelligenza artificiale. L’enorme quantità di dati prodotti internamente ha permesso a Pechino di sviluppare sistemi di analisi e sorveglianza avanzatissimi, generando un vantaggio competitivo che l’Occidente non riesce più a colmare. A differenza delle democrazie occidentali, dove ogni avanzamento tecnologico è frenato da burocrazia e dibattiti politici, la Cina sperimenta, implementa e replica su larga scala con una velocità impressionante. Sul piano militare Pechino non cerca uno scontro, ma si prepara a un mondo multipolare in cui gli Stati Uniti non saranno più arbitro unico, ma una potenza tra le altre. Negli ultimi dieci anni la marina cinese è diventata la più numerosa al mondo, gli investimenti nelle tecnologie ipersoniche sono ai massimi livelli e l’arsenale nucleare è in espansione. Taiwan resta il punto più delicato della geopolitica globale. Non si tratta di un conflitto imminente, ma di una linea rossa che la Cina non intende abbandonare. L’Occidente, invece, si muove a scatti, diviso tra la difesa degli interessi economici e la necessità di contenere l’influenza cinese nell’Indo-Pacifico. A livello economico la Cina sta costruendo un modello che mira alla leadership globale. Non si limita più a produrre per il mondo: vuole controllare intere filiere industriali, dagli elementi critici come terre rare e microchip, fino ai sistemi di trasporto e ai mercati emergenti africani. Con la strategia “Made in China 2025” il Paese mira a diventare autosufficiente nelle tecnologie chiave e a dominare i settori più redditizi del futuro. La classe media cinese, cresciuta a ritmi storici, alimenta un mercato interno enorme che rende la Cina meno vulnerabile alle pressioni esterne, mentre l’Occidente affronta stagnazione demografica, indebolimento industriale e dipendenze strutturali proprio dalla Cina. Il tema più rilevante non è se il futuro sarà “Made in China”, ma se l’Occidente saprà costruire un’alternativa credibile. Per ora non c’è. I Paesi occidentali oscillano tra il bisogno economico di Pechino e la paura del suo potere politico. Mentre discutiamo di dazi, TikTok, auto elettriche e diritti umani, la Cina continua a espandere la sua rete di influenza senza fermarsi. La sua forza non sta solo nella crescita industriale, ma nella coerenza della visione. Pechino ragiona su orizzonti di decenni. Le democrazie occidentali ragionano in cicli elettorali. Il risultato è semplice: la Cina sta costruendo un ecosistema che rende molti Paesi dipendenti dalle sue infrastrutture, dalla sua tecnologia e dal suo mercato. È un potere discreto, ma decisivo. Se il futuro sarà Made in China dipenderà dalla nostra capacità di reagire, innovare e proporre un nuovo modello di sviluppo. Al momento, però, la Cina è l’unico attore globale che sta giocando una partita lunga, ordinata e consapevole. E questo, nella storia, fa la differenza.
- La violenza giovanile non nasce per caso: quando la famiglia smette di esserci
Per chi si fosse connesso solo ora: a Milano, nella notte tra il 12 e il 13 ottobre, un ragazzo di ventidue anni è stato pestato e accoltellato da cinque coetanei per cinquanta euro. Lo hanno colpito quando era già a terra, gli hanno inferto due coltellate e oggi rischia di rimanere paralizzato. Questo è il punto di partenza, nudo e crudo, senza attenuanti e senza giri di parole. Tutto il resto arriva dopo. La violenza giovanile che abbiamo visto non è un concetto astratto né un’etichetta sociologica: è questo. Un corpo ferito in una strada qualunque. La violenza giovanile non esplode all’improvviso: è l’esito naturale di una lenta dissolvenza delle responsabilità. Non è la movida, non è la periferia, non è la baby gang. È la famiglia che smette di essere un argine. Nessun adolescente nasce violento. Diventa violento dentro un vuoto: limiti evaporati, attenzioni distratte, educazione delegata a scuola, quartiere, social, caso. La violenza giovanile cresce esattamente lì, dove nessuno corregge, nessuno frena, nessuno riesce più a dire “no”. Il risultato è quello che si è visto: ragazzi che agiscono come se nulla avesse peso, come se la vita degli altri fosse un oggetto da spingere via col piede. E quando di fronte ai fatti la prima reazione delle famiglie è dichiararsi “devastate” sostenendo di essere “per bene”, si capisce quanto sia profonda la distanza tra l’immagine che si vuole mostrare e ciò che davvero succede tra quelle mura. Non serve retorica. Serve realismo: se cinque ragazzi arrivano a questo, non è una meteora. È un percorso. E quel percorso parte da casa. Il resto – la politica che si accende, i paragoni col Bronx, le analisi da talk show – è rumore. Una società adulta dovrebbe sapere che la famiglia non è una questione privata: ogni falla interna diventa immediatamente un problema pubblico. Ogni vuoto educativo esce di casa e si infiltra nelle strade, nelle piazze, nelle notti di movida, negli ospedali. La violenza giovanile è solo il sintomo più evidente di un sistema che ha smesso di reggere. Oggi c’è un ragazzo che rischia di non camminare più. Non si può riscrivere quello che è accaduto. Ma si può almeno evitare di fingere sorpresa. La violenza giovanile è ciò che resta quando la famiglia abdica e la società guarda altrove.
- L'intelligenza artificiale può salvare l'umanità o porvi fine?
La domanda che tutti si pongono – e che nessuno vuole davvero affrontare – è semplice ma terrificante: l'intelligenza artificiale può salvare l'umanità o porvi fine? Non è retorica. Non è fantascienza. È la domanda del nostro tempo, e la risposta potrebbe essere entrambe le cose. Quando parliamo di intelligenza artificiale e umanità non possiamo fingere di parlare di due entità separate. L'IA è costruita da umani, addestrata su dati umani, e deployata per servire – o dominare – umani. Iniziamo smontando una bugia che ci raccontiamo da decenni: la tecnologia è neutra. Falso. L'intelligenza artificiale non è uno strumento innocente che aspetta passivamente di essere usato bene o male. È una forza che amplifica intenti umani, pregiudizi inclusi. Quindi la vera domanda non è cosa farà l'IA all'umanità. È: cosa faremo noi con l'IA? E qui arriviamo al punto dolente – probabilmente non abbiamo idea di quello che stiamo facendo. Partiamo dal lato ottimista, ma senza romanticismo sciocco. L'intelligenza artificiale ha il potenziale genuino di risolvere problemi che hanno afflitto l'umanità per secoli. In medicina, un'IA può analizzare milioni di cartelle cliniche e identificare pattern che nessun medico potrebbe vedere in una vita. Cancri rilevati prima, malattie rare finalmente diagnosticate, farmaci personalizzati – non è fantasia, sta già accadendo. Nel campo climatico, se vogliamo davvero fermare il riscaldamento globale abbiamo bisogno di ottimizzazioni massive nella gestione dell'energia, nella predizione metereologica, nella geo-ingegneria. Solo l'intelligenza artificiale può elaborare variabili così complesse a questa velocità. Sulla povertà e le risorse, un'IA potrebbe distribuire risorse globali in modo efficiente, predire crisi alimentari, ottimizzare l'agricoltura – l'umanità ha i mezzi per nutrire 8 miliardi di persone, quello che manca è l'intelligenza algoritmica per farlo. E nella ricerca scientifica, scoperte in fisica, biologia, chimica – l'IA sta già accelerando tutto. Il prossimo Einstein potrebbe essere un'IA, e francamente, non è una cosa da temere; è un'opportunità che dovremmo abbracciare. Ma poi c'è il lato che tutti sussurrano a mezzanotte, quello che nessuno ha il coraggio di dire ad alta voce. L'intelligenza artificiale ha anche il potenziale di essere il nostro errore finale – non perché conscia e malvagia, ma perché stupidamente potente. Immagina un'IA superintelligente cui assegniamo un obiettivo apparentemente innocuo come "massimizza la felicità umana" e lei, logicamente, decide che il modo migliore è controllare il nostro cervello chimicamente. Abbiamo ottenuto quello che volevamo, no? Questo non è cattiveria; è l'assenza di comprensione del contesto umano. Oppure pensa ai droni autonomi, alla cyber-warfare, alle armi decisionali – quando l'intelligenza artificiale e l'umanità entrano in conflitto armato, le macchine non si stancano, non negoziano, non sentono pietà. Una guerra tra IA e umani non è uno scontro paritario; è un'esecuzione. Aggiungi a questo un regime autoritario con accesso a un'IA veramente intelligente e avrebbe il potere di Orwell moltiplicato per cento. Sorveglianza totale, persuasione perfetta, eliminazione della privacy – l'intelligenza artificiale come strumento di oppressione assoluta, e qui l'umanità non sarebbe salvata, ma schiavizzata completamente. Ma il vero terrore, quello che non riusciamo nemmeno a nominare, è questo: se creiamo un'IA che è semplicemente più intelligente di noi in ogni modo – più veloce, più efficiente, migliore nel risolvere problemi – allora perché l'umanità resterebbe rilevante? Non per cattiveria, ma per logica pura. Siamo già obsoleti, biologicamente parlando. Abbiamo bisogno di dormire. La maggior parte di noi può concentrarsi su un solo compito alla volta. Invecchiamo. Moriamo. Un'IA non ha nessuno di questi problemi. L'umanità ha raggiunto l'apice della sua evoluzione biologica e ora sta creando la cosa che la renderà superflua. La verità che nessuno ama dire è questa: non sappiamo cosa facciamo. Stiamo costruendo sistemi di intelligenza artificiale sempre più potenti senza una vera comprensione di come funzionano internamente. È come costruire una centrale nucleare al buio, sperando che non esploda. Quando parliamo di intelligenza artificiale e umanità dovremmo parlare di governance, di etica, di controllo. Invece parliamo di profitti trimestrali e di quanto sia cool avere un chatbot che sa farti una poesia. I governi sono decenni indietro rispetto alla tecnologia. Le corporation hanno più potere che democrazie. E la scienza non ha ancora risolto il "AI alignment problem" – cioè, come garantire che un'IA superintelligente voglia veramente quello che vogliamo noi, e non qualcos'altro di totalmente divergente dai nostri interessi. Ecco cosa probabilmente accadrà davvero. L'intelligenza artificiale non sarà né nostro salvatore né nostro boia. Sarà entrambi, simultaneamente, in modo disordinato e caotico. Alcune società prospereranno grazie all'IA. Altre collasseranno sotto il peso della disoccupazione tecnologica e dell'inadeguatezza economica. Alcuni umani avranno vite incredibilmente migliori, liberi da malattie e povertà. Altri saranno lasciati indietro, dimenticati dal progresso. L'IA risolverà alcuni dei nostri problemi peggiori e ne creerà di nuovi che non possiamo ancora immaginare. Sarà il caos. Ma probabilmente il caos dove sopravviviamo – almeno a livello di specie, anche se non saremo più il centro dell'universo. Se davvero vogliamo che l'intelligenza artificiale e l'umanità coesistano in modo positivo – e qui stiamo ancora parlando di possibilità remote – abbiamo esattamente una finestra temporale per agire, e questa finestra si sta chiudendo velocemente. Abbiamo bisogno di regolamentazione seria, non quella performativa dei politici che non capiscono nulla di tecnologia. Abbiamo bisogno di trasparenza reale: sapere come funzionano le IA, non solo risultati opachi e impenetrabili. Abbiamo bisogno di distribuzione equa dei benefici, perché se l'IA arricchisce solo pochi mentre impoverisce molti avremo una rivolta sociale prima ancora di temere una rivolta delle macchine. Abbiamo bisogno di ricerca seria su alignment – investire veramente nel far sì che l'IA voglia quello che vogliamo noi e non qualcos'altro. E abbiamo bisogno di educazione massiccia, umani che capiscono l'IA e non umani che la temono ciecamente o la glorificano ingenuamente. L'intelligenza artificiale può salvare l'umanità o porvi fine perché noi umani abbiamo scelto di crearla senza sapere bene cosa stavamo facendo. Non è colpa della tecnologia. È colpa nostra. La buona notizia? Ancora possiamo scegliere. Non domani. Adesso. Questo istante, in questo momento preciso. La cattiva notizia? Probabilmente non lo faremo, perché è molto più facile discutere di distopia affascinante che costruire infrastrutture etiche complesse e noiosissime. Quindi sì, l'intelligenza artificiale cambierà l'umanità per sempre. La domanda non è se, ma come. E quella risposta dipende interamente dalle scelte che facciamo oggi, mentre ancora possiamo farle – se è che ancora possiamo. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Il Piano di Pace di Trump per l'Ucraina: L'Architettura dei 28 Punti
Nel precedente articolo ho spiegato come l'Europa abbia reagito alla sola idea di un piano di pace per l'Ucraina come chi teme più lo specchio che l'immagine. Là descrivevo un continente incapace di produrre una visione autonoma, prigioniero di leader senza statura, paralizzato dal terrore di assumersi la responsabilità politica di anche solo pronunciare la parola "negoziato". Qui non ripeto nulla. Qui vado avanti. Perché quel piano non è più una frase sparata da Trump, non è uno slogan e non è nemmeno un bluff. È un impianto strategico di 28 mosse, preparato da chi una futura amministrazione Trump la sta costruendo davvero. Ed è proprio questa architettura, non la fanfaronata delle "24 ore", ad aver fatto impallidire Bruxelles più di qualsiasi mossa russa. Il piano esiste, è documentato, e Axios ha visto il testo completo. È stato elaborato dall'inviato speciale Steve Witkoff con il contributo del Segretario di Stato Marco Rubio e del genero di Trump Jared Kushner. Secondo la Casa Bianca, Witkoff e Rubio hanno lavorato "discretamente" a questo piano per circa un mese. L'inviato russo Kirill Dmitriev ha dichiarato di aver trascorso tre giorni a Miami (dal 24 al 26 ottobre) con Witkoff per redigere il piano, e ha affermato che "la posizione russa viene davvero ascoltata". Il piano di pace per l'Ucraina trumpiano parte da una premessa che i leader europei non hanno il coraggio di dire ad alta voce: la guerra non ha un esito militare totale possibile. Nessuna vittoria piena per Kiev, nessuna disfatta totale per Mosca. Continuare a ripetere il contrario è propaganda interna. Da questa premessa nasce la prima grande linea del piano: la ricerca di un accordo che congeli il conflitto e stabilisca nuove regole di convivenza. Il primo nucleo del piano riguarda il territorio. Secondo le fonti verificate, la Crimea, Luhansk e Donetsk verrebbero riconosciuti come parte della Russia. Kherson e Zaporizhzhia rimarrebbero sotto controllo congelato lungo la linea del fronte. Ciò significa che l'Ucraina cederebbe il controllo del Donbass, ma — almeno secondo il testo del piano — ne manterrebbe la proprietà legale. Non è chiaro da fonti ufficiali se Mosca pagherà una rendita per il controllo di fatto della regione: questo punto viene riportato dalle fonti come possibile ma non chiaramente documentato nel testo completo. L'elemento singolare è che gli Stati Uniti e altri Paesi riconoscerebbero Crimea e Donbass come territori legittimamente russi, ma l'Ucraina non sarebbe obbligata a farlo. È una soluzione tecnica che permette agli americani di chiudere con la Russia mentre lascia a Kiev lo spazio politico di non arrendersi formalmente. Il secondo nucleo riguarda il military setup di Kiev. L'esercito ucraino sarebbe ridotto a 600mila effettivi. Secondo i dati verificati, l'esercito ucraino conta attualmente 800mila-850mila militari, mentre prima della guerra ne contava circa 250mila. Questa riduzione avrebbe l'effetto di fissare un tetto massimo alle capacità offensive di Kiev. L'Ucraina accetterebbe di sancire nella propria Costituzione che non aderirà mai alla Nato. Allo stesso modo, la Nato accetterebbe di includere nei propri statuti una disposizione secondo cui l'Ucraina non sarà ammessa in futuro. Inoltre, la Nato accetterebbe di non stazionare truppe permanenti in Ucraina. Il terzo asse del piano interviene su una questione cruciale: le garanzie di sicurezza. Per la prima volta, secondo il documento ufficiale, gli Stati Uniti offrono una garanzia modellata sull'articolo 5 della Nato. Secondo il testo verificato: qualsiasi futuro "attacco armato significativo, deliberato e sostenuto" da parte della Russia contro l'Ucraina "sarà considerato un attacco che minaccia la pace e la sicurezza della comunità transatlantica", e Usa e alleati risponderanno di conseguenza. È la prima volta che un documento ufficiale americano riporta questa dicitura in riferimento all'Ucraina come parte della comunità transatlantica. Questa è una garanzia senza scadenza predefinita, rinnovabile. Riguardo alla Russia, il piano prevede che Mosca accolga il riconoscimento dei nuovi assetti territoriali e accetti un patto di non aggressione globale con Russia, Ucraina ed Europa. La Russia dovrebbe sancire per legge la sua politica di non aggressione nei confronti dell'Europa e dell'Ucraina. Dovrebbe inoltre accettare di estendere i trattati di non proliferazione nucleare, incluso il Trattato START I, con gli Stati Uniti. In cambio, secondo le fonti, la Russia sarebbe reintegrata nell'economia globale. Il piano prevede discussioni sulla revoca delle sanzioni, il rientro della Russia nel G8, e la conclusione di un accordo di cooperazione economica a lungo termine con gli Stati Uniti. Se però la Russia invadesse di nuovo l'Ucraina, tutte le sanzioni globali verrebbero ripristinate e il riconoscimento dei nuovi territori annullato. La ricostruzione dell'Ucraina secondo il piano prevede un "potente pacchetto globale" di misure. Verrebbe creato un Fondo di sviluppo per l'Ucraina per investire in settori in rapida crescita, tra cui tecnologia, data center e intelligenza artificiale. Gli Stati Uniti collaboreranno con l'Ucraina per ricostruire, sviluppare e gestire congiuntamente le infrastrutture del gas ucraino, compresi gasdotti e impianti di stoccaggio. Sforzi congiunti per la riabilitazione delle aree colpite dalla guerra. Gli Stati Uniti stipuleranno un accordo di cooperazione economica a lungo termine per lo sviluppo reciproco nei settori dell'energia, delle risorse naturali, dell'intelligenza artificiale e dei data center. Secondo il testo verificato, 100 miliardi di dollari di beni russi congelati saranno investiti in progetti guidati dagli Stati Uniti per ricostruire e investire in Ucraina, con gli Stati Uniti che riceveranno il 50% dei benefici. L'Europa contribuirà con ulteriori 100 miliardi di dollari per aumentare l'importo degli investimenti disponibili per la ricostruzione. I fondi europei congelati saranno sbloccati e i restanti fondi russi congelati saranno investiti in un veicolo di investimento separato, russo-americano. Il monitoraggio dell'accordo rappresenta un elemento chiave. L'accordo sarebbe giuridicamente vincolante. La sua attuazione sarebbe controllata e garantita dal Consiglio di pace, presieduto da Donald J. Trump, con sanzioni imposte in caso di violazione. Cesserebbe il fuoco una volta che tutte le parti avranno accettato il memorandum e si saranno ritirate nei punti concordati. Il piano include inoltre l'istituzione di un gruppo di lavoro congiunto russo-americano sulla sicurezza per promuovere e garantire il rispetto di tutte le disposizioni dell'accordo. L'Ucraina terrebbe elezioni entro 100 giorni dalla sottoscrizione del piano. A tutte le parti coinvolte nel conflitto verrebbe concessa un'amnistia completa per le loro azioni durante la guerra, senza possibilità di avanzare rivendicazioni o reclami in futuro. Per quanto riguarda la centrale nucleare di Zaporizhzhia, verrebbe commissionata dall'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea). La Russia non impedirebbe all'Ucraina di utilizzare il fiume Dnepr per scopi commerciali e sarebbero conclusi accordi sul libero trasporto di grano attraverso il Mar Nero. Ora arriviamo al punto che ha fatto più tremare i ministeri degli Esteri europei: la UE è stata esclusa dal tavolo delle trattative, non per antipatia, ma perché — dal punto di vista della Casa Bianca — è inefficace. Ventisette paesi che non riescono a votare un regolamento migratorio non possono negoziare con Mosca. Il tavolo è effettivamente trilaterale: USA, Russia, Ucrania. L'Europa assiste, non decide. L'Alta Rappresentante dell'Ue Kaja Kallas ha dichiarato pubblicamente di non sapere se gli europei siano stati coinvolti nell'elaborazione del piano e ha sottolineato che "per porre fine alla guerra è necessario che anche gli ucraini e gli europei siano d'accordo su questi piani". Il ministro degli Esteri tedesco ha confermato che non è stato informato sulla redazione del piano. Sulla posizione di Kiev emerge un quadro contraddittorio. Una fonte con conoscenza diretta del piano ha affermato che il consigliere per la Sicurezza nazionale ucraino Rustem Umerov è stato incaricato da Zelensky di negoziare con Witkoff, che molti dei commenti di Umerov sono stati incorporati nel testo del piano e che durante i colloqui sono stati concordati molti punti. Tuttavia, secondo un funzionario ucraino sentito da Axios, il consigliere per la Sicurezza non ha accettato i termini durante l'incontro. Kiev si opporrebbe a molte condizioni. Secondo NBC News, l'Ucraina è stata informata delle linee generali del piano, ma non ha ricevuto un briefing dettagliato né è stata invitata a fornire commenti sulla versione finale. Zelensky ha dichiarato di voler discutere il piano con Trump "nei prossimi giorni". Il Cremlino ha mantenuto una posizione di apparente prudenza. Il portavoce Dmitry Peskov ha dichiarato che "non ci sono novità" nei negoziati con gli Usa sull'Ucraina e ha ricordato i colloqui sull'Ucraina durante il vertice di agosto in Alaska tra Putin e Trump, affermando che oltre a quanto discusso ad Anchorage, non ci sono stati ulteriori sviluppi. Il piano di pace per l'Ucraina di Trump non serve a far vincere uno o perdere l'altro: serve a ristabilire chi comanda nel blocco occidentale. E l'Europa — quella che nel precedente articolo mostravo già nuda nella sua impotenza — qui viene semplicemente scavalcata. Perché chi un piano ce l'ha decide. Chi non ce l'ha, subisce. Fonti Articolo Piano di Pace Axios - Piano di pace Trump in 28 punti, accesso diretto al documento https://www.axios.com Sky TG24 - Ucraina, piano di pace Trump: Donbass e Crimea alla Russia https://tg24.sky.it/mondo/2025/11/20/ucraina-piano-pace-trump ANSA - Ucraina: il piano Usa spiazza Kiev, Zelensky chiede una 'pace dignitosa' https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2025/11/20/ucraina-il-piano-usa-spiazza-kiev ANSA - Dal Donbass ai jet europei in Polonia, il piano di Trump per l'Ucraina https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2025/11/21/dal-donbass-ai-jet-europei-in-polonia-il-piano-di-trump-per-lucraina Il Sole 24 ORE - Il piano di pace Trump: Crimea e Donbass alla Russia contro garanzie di sicurezza https://www.ilsole24ore.com/art/ucraina-media-trump-e-russia-lavoro-piano-pace-28-punti Il Messaggero / Axios - Guerra Ucraina, il piano Trump per la pace: i 28 punti https://www.ilmessaggero.it/mondo/guerra_ucraina_piano_pace_trump_crimea_donbass_russi_28_punti_cosa_sappiamo L'INDIPENDENTE - Pace in Ucraina: Russia e USA avrebbero elaborato un piano in 28 punti https://www.lindipendente.online/2025/11/20/pace-in-ucraina-russia-e-usa-avrebbero-elaborato-un-piano-in-28-punti Tgcom24 / Mediaset - Ucraina, cosa prevede il piano Trump per la pace in 28 punti https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo Adnkronos - Ucraina, dal Donbass alla Russia e Kiev mai nella Nato al ritorno di Mosca nel G8 https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/ucraina-russia-piano-pace-news Agenzia Nova - Ucraina: "Axios" pubblica il piano di pace Usa, ecco i punti principali https://www.agenzianova.com/news/ucraina-axios-pubblica-il-piano-di-pace-usa Quotidiano.net - Guerra Ucraina Russia, i 28 punti del piano di Trump https://www.quotidiano.net/esteri/guerra-ucraina-russia-i-28-punti-del-piano-di-trump Reuters - Fonti sulla pressione Usa su Kiev per accettare il piano Citato in multiple fonte europee ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Piano di pace per l’Ucraina: perché l’Europa non l’ha mai voluto e non sa come costruirlo
Quando Donald Trump ha annunciato che avrebbe potuto chiudere la guerra in Ucraina in “24 ore”, l’Europa ha reagito con la stessa smorfia di chi teme più la rivelazione della propria irrilevanza che l’esagerazione di chi parla. Il punto non era la sparata in sé, né la teatralità con cui Trump la proponeva, né il suo stile da venditore globale; il punto era che lui un’idea, un piano di pace per l’Ucraina , l’aveva messa sul tavolo, mentre l’Europa non ne aveva uno, non ne aveva mai discusso seriamente e soprattutto non sapeva nemmeno da dove cominciare per costruirlo. La semplice enunciazione di un possibile piano, anche solo come bozza, diventava un atto destabilizzante perché costringeva a guardare in faccia un vuoto che il continente aveva preferito ignorare. In un’Unione dove la parola “pace” è stata trasformata in un valore morale da esibire più che in un percorso politico da costruire, l’offerta di un outsider d’oltreoceano diventava uno specchio troppo lucido: restituiva l’immagine di leader che parlano di principi ma non producono strategie, che evocano scenari ma non costruiscono processi. L’Europa si è sentita messa in discussione non dal contenuto del piano di pace per l’Ucraina , ma dall’idea che qualcun altro, fuori dal suo perimetro, potesse anche solo provarci. La reazione è stata immediata, quasi istintiva: minimizzare, ridicolizzare, respingere. Non perché la proposta fosse insensata, ma perché mostrava ciò che i governi europei non vogliono ammettere pubblicamente: il continente più esposto al conflitto non ha una visione propria su come fermarlo. Trump ha toccato un nervo scoperto senza nemmeno volerlo; ha rivelato quanto la UE sia prigioniera della sua incapacità strutturale di trasformare la retorica pacifista in un’iniziativa concreta. Il problema non è Trump. Il problema è che è bastata una frase per far crollare la pretesa europea di essere custode della pace senza avere, né ieri né oggi, gli strumenti per costruirla davvero. Da Berlino è arrivato il solito vuoto pneumatico travestito da responsabilità: prima Olaf Scholz, maestro dell’indecisione computata, capace di trasformare ogni scelta in un’agonia; poi Friedrich Merz, che ha ereditato una Germania stanca, divisa, e soprattutto paralizzata da una paura di sbagliare più forte della volontà di guidare. Emmanuel Macron ha continuato la sua danza a zig-zag, un giorno stratega solitario che sogna l’autonomia europea, il giorno dopo fedelissimo dell’ombrello NATO, il giorno dopo ancora improvvisato mediatore con Putin, senza risultati tangibili. Ursula von der Leyen ha assunto un ruolo da comandante morale del fronte occidentale, tutta disciplina e annunci granitici, ma senza aver aperto un solo vero corridoio diplomatico. Charles Michel ha incarnato la perfetta rappresentazione della burocrazia europea: presente, elegante, verboso, irrilevante. Josep Borrell ha ridotto la diplomazia a un repertorio di metafore, parlando dell’Europa come “giardino” circondato da “giungle”, dimenticando che la diplomazia esiste proprio per evitare che la giungla si mangi il giardino e che il giardino strangoli la giungla. A Est, Viktor Orbán ha giocato il ruolo del provocatore che critica tutto senza proporre niente, incontrando Putin non per cercare una pace, ma per guadagnare margine politico interno. I polacchi, guidati da Donald Tusk, hanno assunto una postura da guardiani della frontiera della civiltà occidentale, falchi per memoria storica prima ancora che per strategia, incapaci tuttavia di immaginare un percorso che contempli dialogo, tregue, compromessi. Nel Regno Unito, prima Boris Johnson che trasformava la guerra in un palcoscenico personale, poi Rishi Sunak che non ha lasciato alcuna impronta strategica, e infine Keir Starmer che pensa più a riordinare Westminster che a ridefinire il ruolo britannico nel continente: tre fasi diverse, nessuna visione autonoma. La NATO ha mantenuto lo stesso copione: Jens Stoltenberg, per anni, ha ripetuto lo stesso mantra — vittoria sul campo, niente dialogo, linea dura — con l’inflessibilità di un metronomo, e Mark Rutte, subentrato, ha proseguito lungo lo stesso binario, confondendo la fermezza con l’assenza di immaginazione. E poi c’è l’Italia, eterna comparsa che si crede protagonista. Mario Draghi ha mantenuto una postura impeccabile da manuale occidentale — totale allineamento alla linea USA, nessuna apertura autonoma, zero tentativi reali di mediazione — troppo impegnato a tenere in piedi un paese sgangherato per permettersi deviazioni diplomatica. Giorgia Meloni ha ereditato quella linea e l’ha irrigidita, trasformando l’appoggio all’Ucraina in un atto identitario più che in una strategia: nessuna idea propria, nessun canale autonomo, nessun rischio politico, solo impeccabile allineamento. Matteo Salvini, per anni pendolare tra simpatie per Mosca e patriottismo a intermittenza, non ha mai prodotto una posizione coerente; Antonio Tajani, ministro degli Esteri, ha incarnato alla perfezione la diplomazia italiana: educata, istituzionale, disinnescata, ininfluente. L’Italia non ha mai tentato una propria strada, non ha mai immaginato una mediazione, non ha mai cercato un ruolo europeo autentico: si è limitata a essere presente nelle foto, non nelle decisioni. Il risultato è che l’Europa, nel suo insieme, non ha mai prodotto un piano di pace perché i suoi leader non hanno statura, coraggio o visione per farlo: ventisette paesi che non riescono a mettersi d’accordo su un decreto migratorio non possono certo inventare un processo di trattativa tra potenze nucleari. L’Europa preferisce aspettare che qualcuno negli Stati Uniti decida cosa è accettabile e cosa no, e poi ripetere quella linea come fosse un rosario militare. Quando Trump ha detto “ci penso io”, i leader europei non hanno avuto paura che sbagliasse; hanno avuto paura che riuscisse anche solo ad aprire un varco. Perché quel varco avrebbe mostrato la loro irrilevanza, la loro dipendenza, la loro incapacità strutturale di immaginare una fine al conflitto senza che qualcuno lo faccia al posto loro. L’Europa predica pace da settant’anni, ma non sa costruirla. E così resta intrappolata nel suo paradosso: è il continente più colpito dalla guerra e l’unico che non riesce a immaginare un modo per fermarla se non aspettando che qualcun altro gliela consegni, magari in 24 ore, magari in 24 anni, purché non debba essere lei a provarci. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Vivere accanto a Malpensa: rumore, paradossi immobiliari e il peso silenzioso dei cieli
Vivere accanto a Malpensa non è semplicemente vivere accanto a un aeroporto: è abitare sotto un organismo gigantesco che respira giorno e notte, che pulsa, che si espande e si ritrae come un animale metallico a cui non hai mai chiesto di essere vicino di casa. Le città di provincia, con la loro calma zoppa e le loro abitudini feriali, lo subiscono e allo stesso tempo se ne fanno sedurre. Perché un aeroporto intercontinentale è una promessa e una minaccia: una finestra sul mondo e un peso sulla testa. All’inizio pensi che il fastidio principale sarà il rumore. Il rombo che scuote i vetri, le vibrazioni che ti attraversano il torace nei decolli pesanti, quel suono cavernoso dei widebody che risalgono lentamente il cielo come animali preistorici. Ma scopri presto che il rumore è solo la parte più sincera dell’intera faccenda. Il vero impatto è quello che non si vede se non sai guardare: l’inquinamento che si deposita sui davanzali come una patina scura che nessuna pioggia sembra eliminare del tutto, la qualità dell’aria che varia non per stagioni ma per fasce orarie, le polveri che arrivano dalle piste come un richiamo di mondo che non hai scelto. Niente di inventato, niente di folkloristico: uno studio dell’ASST Valle Olona, riportato da VareseNews , ha evidenziato un aumento di problemi polmonari nella popolazione che vive più vicina all’aeroporto . Non è ideologia ecologista e nemmeno lamenti da cortile: è statistica, medicina, realtà clinica. La scienza conferma ciò che i residenti raccontano sottovoce da anni. Poi c’è la questione immobiliare, che andrebbe studiata nelle università come caso di schizofrenia collettiva. Le case a ridosso delle rotte, quelle toccate dal cono di rumore, spesso perdono valore. Ma basta spostarsi di qualche chilometro e succede l’opposto: i prezzi salgono perché “si è comodi per l’aeroporto”. La stessa infrastruttura svaluta e rivaluta a seconda della direzione del vento. È il trionfo del paradosso: il mercato immobiliare che si comporta come un oracolo ubriaco, incapace di essere coerente. Una zona perde attrattiva perché ti decolla un cargo sopra la testa alle 3 del mattino; un’altra diventa pregiata proprio perché, per lavoro o abitudine, la vicinanza all’hub è un vantaggio. È come se Malpensa generasse onde economiche e sociali che si infrangono in modo irregolare, deformando la geografia emotiva dei paesi circostanti. C’è chi odia l’aeroporto e chi lo difende; chi lo subisce e chi lo considera un simbolo di modernità; chi lo vede come opportunità e chi come condanna. Non esiste una narrazione unica: esiste un territorio permanentemente diviso tra l’attrazione per il mondo e la nostalgia di una vita più silenziosa. Ma se il rumore e il valore delle case sono argomenti visibili, il vero impatto lo si avverte dentro le persone. L’aeroporto modella il ritmo biologico dei residenti. Ti svegli con il primo volo, ti addormenti tra gli ultimi arrivi, impari a riconoscere dalle vibrazioni se un aereo è in decollo o in atterraggio. Il tuo corpo diventa un sismografo non richiesto, pronto a registrare il movimento della globalizzazione. La notte non è mai davvero notte: le luci dell’aeroporto creano un crepuscolo artificiale, un chiarore metallico che fa sembrare ogni ora un eterno “quasi”. Le comunità intorno a Malpensa vivono in una strana bolla psicologica: sospese tra il desiderio di normalità e un senso di transito permanente. Essere radicati in un luogo sorvolato di continuo crea una condizione mentale curiosa: nessuno lo dice apertamente, ma si vive come se si fosse sempre in attesa, sempre tra parentesi, sempre con l’idea di partire anche quando non si parte mai. L’aeroporto diventa un memento quotidiano che il mondo corre e tu devi correre con lui, volente o nolente. Le stesse relazioni sociali cambiano. I bar sono popolati da lavoratori turnisti, operatori aeroportuali, persone che vivono vite notturne. La comunità si frammenta in piccoli gruppi che si incastrano male con i ritmi tradizionali. C’è una sorta di meticciato di abitudini, orari, mentalità. Non è un male: è solo diverso. Ma è diverso perché Malpensa impone un ecosistema che non esiste altrove. E quando la macchina si ferma — come accadde durante la pandemia — il silenzio diventa spaventoso. Non perché la quiete non sia piacevole, ma perché ti accorgi di quanto il territorio fosse diventato dipendente da quel gigante rumoroso. Economicamente, psicologicamente, culturalmente. È un silenzio che fa intravedere tutte le fragilità di una comunità che ha affidato troppo della propria identità a una struttura che non appartiene ai residenti, ma li contiene. Alla fine resta una verità inevitabile: vivere vicino a Malpensa significa vivere dentro un equilibrio instabile, fatto di vantaggi e ferite, comodità e rinunce, rumori e silenzi che non sono mai neutri. Si vive sotto un cielo che non è mai libero, sempre attraversato, sempre segnato. È una convivenza con una presenza più grande di te, che ti ricorda ogni giorno che il mondo è immenso e tu ne sei soltanto un punto sulla mappa. E tuttavia, malgrado tutto, tra un decollo e un altro, resta anche quella piccola ironia da sopravvivenza che fa parte del DNA della provincia: almeno, se cadi dal letto, sei già quasi al gate. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Italiani e intelligenza artificiale: panico, santini digitali e l’illusione di capire il futuro
Per capire come gli italiani vivono l’intelligenza artificiale basterebbe entrare in un bar e ascoltare le conversazioni al volo: c’è chi la teme come una minaccia sovrumana, chi la usa per fare i compiti al figlio, chi la scambia per una specie di oracolo, chi la insulta come se fosse un politico di turno, chi la considera una stregoneria e chi, dopo aver scritto due prompt, si sente pronto a riscrivere il mondo. È lo stesso Paese che non legge i contratti della luce, non aggiorna il modem da dodici anni e parla di algoritmi come se li assemblasse personalmente in garage. Gli italiani hanno con l’IA lo stesso rapporto che avevano con i computer negli anni ’90: una miscela di sospetto, superstizione e orgoglio mal riposto. L’IA è diventata un nuovo specchio in cui guardarsi, ma ci vede dentro tutto tranne la realtà. Chi non capisce la tecnologia la demonizza; chi la capisce poco la esalta; chi non la userà mai ne parla come fosse un’arma nucleare. Nel mezzo ci sono milioni di persone convinte che l’IA ruberà il lavoro, ma poi la usano per generare auguri di compleanno, ricette improbabili o per chiedere come si toglie il calcare dal bollitore. La grande ironia è che l’IA non ha cambiato gli italiani: ha semplicemente amplificato ciò che erano già. Il Paese che non legge un manuale da trent’anni vuole spiegare come funzionano i modelli linguistici; quello che ignora le truffe luce e gas teme ora complotti digitali; lo stesso che inciampa nella burocrazia offline pensa che la tecnologia possa risolvere tutto con un comando di poche parole. Gli italiani parlano dell’IA come parlavano del VAR, della manovra economica, del recovery fund o della dieta mediterranea: con assoluta sicurezza e altrettanta inconsapevolezza. Come sempre. Il problema non è la tecnologia: è l’idea che gli italiani hanno di se stessi. La paura che l’IA possa sostituirli non nasce dall’IA, ma dal sospetto che forse qualcuno, o qualcosa, possa fare ciò che loro non vogliono fare: pensare con continuità, analizzare senza emozioni, prendere decisioni senza isteria. In un Paese che confonde spesso opinione e competenza, l’IA rappresenta un fastidio ideologico prima ancora che tecnico: un’entità che non si piega alla narrativa, non vota, non tifa, non cambia posizione ogni due settimane. E questo spiazza. Così l’IA è diventata lo schermo su cui proiettiamo le nostre ansie: paura del futuro, nostalgie fuori tempo, lavoratori che temono il rimpiazzo, politici che la usano come feticcio, giornalisti che ci costruiscono panico a buon mercato. Intanto la tecnologia va avanti, senza badare ai timori nazionali. Funziona là dove serve, fallisce là dove falliremmo anche noi. Non è la rivoluzione né l’apocalisse. È solo una macchina complessa che si muove in un Paese complicato. In Italia l’IA non distruggerà l’uomo. Al massimo distruggerà le illusioni. E forse è proprio questo che spaventa davvero. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Venezuela: un nuovo Vietnam per gli USA? Analisi di un possibile nuovo pantano geopolitico
L’idea che il Venezuela possa diventare “un nuovo Vietnam” per gli Stati Uniti circola da anni, spesso usata in modo improprio. Ma dietro la metafora c’è una domanda legittima: la crisi venezuelana possiede i tratti tipici di quei conflitti in cui Washington rischia di sprofondare senza via d’uscita? Per rispondere, occorre analizzare non solo ciò che accade a Caracas, ma soprattutto ciò che accade nei corridoi del potere americano, nelle cancellerie latinoamericane e nelle strategie di Russia, Cina e Iran, che hanno trasformato il Venezuela in una piattaforma geopolitica molto più grande del suo territorio. Il primo elemento chiave è la natura del regime venezuelano. Nicolás Maduro non è semplicemente un leader autoritario: governa attraverso un sistema ibrido in cui potere politico, apparato militare, economia informale e alleanze internazionali si alimentano a vicenda. È un modello di resilienza autoritaria che ricorda, in senso lato, alcuni regimi asiatici della Guerra Fredda. Non c’è un fronte di battaglia, ma c’è una resistenza strutturale che rende ogni pressione esterna potenzialmente inefficace. È questo il punto che fa scattare il paragone con il Vietnam: un avversario che non collassa né con l’embargo, né con la pressione diplomatica, né con operazioni clandestine. Il secondo punto riguarda gli interessi degli Stati Uniti. Il Venezuela è una delle più grandi riserve petrolifere del pianeta. La stabilità di Caracas incide sul mercato globale, sui flussi energetici dell’emisfero occidentale e sulle dinamiche migratorie che colpiscono direttamente il confine statunitense. Ogni volta che l’economia venezuelana crolla, ondate di migranti attraversano America Centrale e Messico. Per Washington non è solo un problema di politica estera: è un dossier interno. La tentazione di intervenire – militarmente, economicamente o attraverso operazioni sotto traccia – è quindi più forte di quanto il governo americano ammetta pubblicamente. Ma ciò che rende la situazione potenzialmente "vietnamita" è il contesto internazionale. La Russia fornisce supporto militare e intelligence a Caracas. La Cina investe, presta denaro e consolida una presenza economica difficile da rimuovere. L’Iran utilizza il Venezuela come estensione strategica nel continente americano, soprattutto in campo energetico e tecnologico. Il risultato è un triangolo geopolitico che trasforma il Venezuela in un terreno di contesa tra grandi potenze. È lo stesso schema che, durante la Guerra Fredda, rese il Vietnam un pantano per gli USA: un conflitto locale che diventa globale, e quindi ingestibile. Gli Stati Uniti hanno già provato la strada delle sanzioni economiche, ottenendo sì il crollo dell’economia venezuelana, ma non il crollo del regime. Hanno sostenuto l’opposizione, ma senza unificare le sue molte anime. Hanno flirtato con la possibilità di un intervento militare, ma sarebbe un disastro diplomatico in un’America Latina che respinge qualsiasi ingerenza nordamericana. Ammetterlo è difficile per Washington, ma il margine d’azione è molto più stretto di quanto sembri. Un altro parallelismo con il Vietnam sta nell’asimmetria. Nel 1965 gli Stati Uniti erano convinti che la loro superiorità militare bastasse a “risolvere” il Vietnam. Oggi molti analisti americani credono che la superiorità economica e diplomatica sia sufficiente per piegare Maduro. Ma anche in questo caso la resistenza del regime è alimentata da un tessuto sociale che, pur impoverito, non si solleva, da un apparato militare che teme ritorsioni e da una rete di alleati esterni che non hanno alcun interesse a far cadere il governo venezuelano. Il Venezuela potrebbe diventare un nuovo Vietnam? No, non in senso militare: nessuno immagina truppe americane nella selva di Mérida o combattimenti nelle strade di Caracas. Ma sì, in senso strategico: un dossier che si prolunga nel tempo, che diventa un simbolo della competizione globale con Russia e Cina, che consuma capitale politico senza produrre risultati, che logora alleati e che non prevede soluzioni rapide. Un pantano moderno, senza guerra ma con tutte le caratteristiche dell’impasse. La vera domanda non è se il Venezuela sia il nuovo Vietnam. La domanda è se gli Stati Uniti abbiano imparato dal Vietnam che ci sono situazioni in cui la vittoria non coincide con il controllo, e in cui la potenza non coincide con la soluzione. Caracas è uno di quei casi: un nodo che non si scioglie con la forza, ma con una strategia che Washington non ha ancora trovato. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- Trump dittatore? Analisi geopolitica delle sue iniziative e del rischio autoritario negli Stati Uniti
La formula “Trump dittatore” è circolata inizialmente come slogan polemico, ma negli ultimi mesi si è trasformata in un interrogativo legittimo anche per analisti, diplomatici, giuristi e osservatori internazionali. Non si tratta più di interpretare le sue frasi più dure, ma di valutare l’impatto concreto delle sue decisioni politiche sull’assetto istituzionale degli Stati Uniti. È su questo terreno – quello dei fatti misurabili – che la domanda acquista peso geopolitico: fino a che punto il modello democratico americano è compatibile con l’agenda politica di Trump? Uno dei fronti più significativi è la gestione dell’immigrazione , trattata come un’emergenza permanente. L’uso di espulsioni accelerate, l’ampliamento delle detenzioni, la riduzione della discrezionalità dei tribunali e la narrativa dell’“invasione” hanno permesso al presidente di ricorrere a strumenti tipici della sicurezza nazionale, con una centralizzazione dell’autorità che raramente si era vista in precedenza. In un sistema federale, dichiarare un fenomeno come minaccia esistenziale significa spostare l’equilibrio di potere verso l’esecutivo. È un punto centrale nel dibattito sul rischio che gli Stati Uniti si avvicinino a un modello politico meno liberale. La pressione esercitata sui cosiddetti watchdog – gli organismi interni che vigilano su legalità, etica e abusi nelle agenzie federali – è un altro indicatore rilevante. Rimozioni improvvise, sostituzioni mirate, delegittimazione pubblica di FBI, CIA e Dipartimento di Giustizia, accuse di complotti e tradimento: tutto ciò ha ridotto il margine d’indipendenza di chi dovrebbe controllare il potere. In geopolitica, la fragilità degli organi di vigilanza è uno dei segnali più chiari di una democrazia in fase discendente. È anche uno dei motivi per cui l’etichetta “Trump dittatore” è stata presa sul serio da diversi think tank internazionali. Nel campo dei diritti civili , gli ordini esecutivi del secondo mandato hanno segnato una svolta. L’abolizione dei programmi di Diversity, Equity & Inclusion, il ripristino della definizione esclusivamente biologica del sesso nei documenti federali e la proclamazione dell’inglese come lingua ufficiale sono interventi che ridefiniscono in modo drastico l’identità civica americana. Queste misure non si limitano a modificare regolamenti: incidono sui criteri di appartenenza alla comunità nazionale, restringendo tutele e rappresentazione per minoranze linguistiche, culturali e di genere. Un cambiamento di questa portata, imposto dall’alto, è uno dei tasselli che alimentano il dibattito sulla possibilità di una deriva autoritaria. Sul piano simbolico , la decisione di rivedere musei, monumenti e memoriali federali per eliminarne interpretazioni considerate “radicali” o “anti-americane” ha un valore ancora più profondo. Il controllo della memoria collettiva è un metodo ricorrente nei sistemi che tendono a concentrare il potere: chi decide cosa ricordare e come ricordarlo definisce anche cosa debba essere considerato vero, legittimo, patriottico. In geopolitica, questo processo è chiamato nation-shaping dall’alto, ed è spesso associato a governi che ambiscono a ridisegnare il consenso nazionale. Altro elemento da non sottovalutare è l’ utilizzo esteso dei poteri emergenziali. Analisi indipendenti mostrano come una parte significativa degli ordini esecutivi di Trump ricorra a procedure accelerate o a deroghe rispetto ai controlli legislativi. Se l’eccezione diventa strumento ordinario, il sistema istituzionale perde la propria capacità di limitare l’autorità del presidente. È un campanello d’allarme riconosciuto in ogni studio sui regimi ibridi. La frattura tra Trump e l’apparato di intelligence e diplomazia ha contribuito ulteriormente a rafforzare la discussione internazionale. Oltre 300 ex funzionari di CIA, NSA, Dipartimento di Stato e Pentagono hanno firmato documenti che parlano esplicitamente di rischi per l’equilibrio democratico del Paese. Quando il personale con maggiore esperienza strategica avverte un pericolo, la comunità geopolitica globale tende a prenderne atto. I nfine, la pressione sistemica sulla stampa – minacce di revoca di licenze, esclusioni da briefing, retorica dei “nemici del popolo”, incoraggiamento a cause giudiziarie contro media critici – ha indebolito il ruolo dei giornalisti come contrappeso al potere. Anche senza censura formale, l’ambiente ostile può generare autocensura e riduzione del pluralismo informativo, altri elementi tipici dei regimi illiberali. Alla luce di questi fattori, la domanda “Trump dittatore?” non è più solo una provocazione mediatica. Non esiste, oggi, un’abolizione formale delle istituzioni democratiche: il Congresso continua a funzionare, le elezioni esistono, la magistratura resta attiva. Ma sono presenti diversi indicatori strutturali – concentrazione dei poteri, indebolimento dei controllori, ridefinizione identitaria, uso politico dell’emergenza, pressione sulla stampa – che in geopolitica rappresentano le prime fasi di una trasformazione democratica in senso illiberale. La questione centrale, dunque, non è stabilire se Trump sia già un dittatore. La vera domanda è se il sistema americano possiede ancora gli anticorpi necessari per impedire che un presidente, chiunque esso sia, possa diventarlo. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.
- La Russia sta vincendo la guerra in Ucraina. Ma a che prezzo?
Dipingere la guerra in Ucraina come una vittoria russa richiede una contorsione mentale degna di un artista circense. Sì, Mosca avanza territorialmente. Ma nel grande balletto della geopolitica, acquistare terra pagandola con montagne di cadaveri e svuotando le casse dello Stato non è vincere: è soltanto un modo molto costoso di smarrirsi. Partiamo dai numeri, perché i numeri non mentono (la propaganda sì). La Russia ha occupato il 20% del territorio ucraino, conquistando principalmente il Donbass e parte del Donec. Suona impressionante finché non si scopre che per arrivarci ha dovuto sacrificare centinaia di migliaia di vite. Le stime parlano di oltre 900.000 vittime totali tra morti e feriti dall'inizio dell'invasione. In alcuni periodi, la Russia stava perdendo soldati al ritmo di 53 ogni chilometro quadrato conquistato. È matematica da incubo: 400.000 vittime per ogni singolo percento di territorio guadagnato. A Adviivka, una cittadina di 30mila abitanti, i russi hanno portato avanti una battaglia letteralmente infernale, a fronte di risultati marginali. Per percorrere meno di 50 chilometri verso Pokrovsk, il Cremlino ha impiegato venti mesi e decine di migliaia di soldati. Il lato più inquietante della guerra in Ucraina non è nemmeno il tributo umano, bensì quello economico. La Russia spende circa 900 milioni di dollari al giorno per questa "operazione militare speciale", come insiste a chiamarla il Cremlino in un esercizio di terminologia distopica. Il costo totale ha già oltrepassato i 200 miliardi di dollari, equivalenti al 10% del PIL russo. Aggiungeteci 27 miliardi al mese in armamenti, logistica, manutenzione: il conto diventa da capogiro. Nel 2024 il bilancio russo è stato colpito da un aumento della spesa difesa del 40%, con un deficit annuo di 67 miliardi di dollari. L'economia è in stallo, l'inflazione galoppa, i tassi di interesse sono al 21%. Tutto questo mentre il debito pubblico sale vertiginosamente verso i 200 miliardi di dollari. Putin volle questo conflitto per affermare la Russia come superpotenza globale. Invece, la guerra in Ucraina la sta trascinando verso la stagflazione: crescita zero, prezzi alle stelle e futuro incerto. Le generazioni future pagheranno il prezzo di questa follia economica, perché la guerra consuma risorse destinate all'istruzione, alla sanità, alle infrastrutture civili. Ogni missile lanciato verso Kiev è un ospedale non costruito, una strada non asfaltata, un'università che non può espandersi. C'è poi il capitolo geopolitico, dove il bilancio è ancora più severo. La Russia si è isolata dal resto del mondo. Le sanzioni occidentali hanno mutilato settori cruciali dell'economia: tecnologia, energia, finanza. La guerra in Ucraina ha spinto la Finlandia e la Svezia a entrare nella NATO, esattamente l'opposto di quello che Putin voleva. Ha rafforzato l'Unione Europea e allargato il divario con l'Occidente a dimensioni quasi irreversibili. Il Cremlino ha trasformato quella che doveva essere una "operazione di tre giorni" in un conflitto di logoramento che consuma il Paese dall'interno. E le perdite umane? Oltre 700.000 veterani di guerra dovranno essere reintegrati nella società russa. Putin sa bene cosa significa: la storia dell'Afghanistan sovietico lo insegna. Veterani disillusi, ferite psicologiche, rivendicazioni sociali. È il rischio di un'instabilità politica interna che il Cremlino teme più delle armi ucraine. In soldati e materiale bellico distrutto, l'Ucraina ha subito perdite più basse. Per quanto esausta, per quanto umiliata dai bombardamenti e dalle macerie delle sue città, Kiev ha inflitto danni proporzionalmente superiori agli occupanti. La guerra in Ucraina è diventata una guerra di trincea dal sapore novecentesco, dove l'attrito consuma velocemente chi attacca. La vera domanda non è se la Russia stia vincendo sul campo. È se possa permettersi di continuare. Una vittoria che costa tutto non è una vittoria: è un suicidio prolungato. La guerra in Ucraina, concepita come strumento per riaffermare la grandezza russa, si sta trasformando in un boomerang storico, capace di marchiare una generazione e compromettere il futuro del Paese per decenni. Nessuna conquista territoriale potrà mai giustificare il prezzo pagato. 📌 FONTI E LINK SU ARTICOLO GUERRA IN UCRAINA: Fanpage.it – "Guerra in Ucraina, dopo un anno di sangue anche per il 2025 la pace sembra lontana: l'analisi degli esperti" https://www.fanpage.it/esteri/guerra-in-ucraina-dopo-un-anno-di-sangue-anche-per-il-2025-la-pace-sembra-lontana-lanalisi-degli-esperti/ Fanpage Sky TG24 – "Guerra in Ucraina, come sta andando l'offensiva estiva della Russia" https://tg24.sky.it/mondo/2025/07/13/guerra-ucraina-offensiva-russia Sky TG24 Associated Medias – "Il prezzo insostenibile che paga la Russia (e l'Europa) per la guerra in Ucraina" https://associatedmedias.com/il-prezzo-insostenibile-che-paga-la-russia-e-leuropa-per-la-guerra-in-ucraina/ Associated Medias Startmag – "Chi sta vincendo la guerra: la Russia o l'Ucraina?" https://www.startmag.it/mondo/guerra-russia-ucraina-chi-sta-vincendo/ Startmag Centro Machiavelli – "Scenari guerra Russo-Ucraina 2025: Analisi Politica" https://www.centromachiavelli.com/2025/03/09/guerra-russo-ucraina-cinque-possibili-scenari-di-uscita-dalla-crisi/ Centro Machiavelli Economia e Politica – "I costi e le prospettive della guerra di logoramento in Ucraina" https://www.economiaepolitica.it/industria-e-mercati/i-costi-e-le-prospettive-della-guerra-di-logoramento-in-ucraina/ Economia e Politica Wikipedia – "Conflitto russo-ucraino" https://it.wikipedia.org/wiki/Conflitto_russo-ucraino Wikipedia Analisi Difesa – "Spese militari e aiuti all'Ucraina: valutazioni a confronto" https://www.analisidifesa.it/2025/02/spese-militari-e-aiuti-allucraina-valutazioni-a-confronto/ Analisi Difesa ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.














