Il post che ha fatto emergere il peggio: il caso Mamdani ed il razzismo made in Italy
- Max RAMPONI

- 9 nov
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 10 nov

New York ha eletto il suo primo sindaco musulmano, Zohran Mamdani. Figlio di immigrati ugandesi di origini indiane, giovane, progressista, socialista dichiarato, impegnato sui diritti civili e sull’inclusione sociale. Una storia che in molte parti del mondo è stata accolta come segno di maturità politica e di progresso culturale. Ma non in Italia. Qui, come spesso accade, la notizia è stata filtrata attraverso il prisma dell’ossessione identitaria. Quando Matteo Salvini ha scritto sui social: «Il primo sindaco islamico a New York. Nella città ferita dall’11 settembre hanno scelto un primo cittadino socialista, pro-Pal, pro-gender…», non ha fatto solo un commento politico. Ha pronunciato una formula. Una di quelle frasi apparentemente innocue che spalancano porte su paure antiche, e che, come spesso accade, rivelano molto più su chi le scrive che su chi le ispira.
Nel suo post, Salvini non parlava di programmi elettorali, di gestione urbana o di scelte amministrative. Parlava di identità. “Islamico”, “11 settembre”, “pro-gender”. Tre parole che, messe insieme, disegnano un messaggio preciso: il musulmano resta il simbolo della minaccia, il trauma collettivo resta un’arma politica, la diversità resta qualcosa da sospettare, non da comprendere. È una costruzione linguistica tipica della destra populista: ridurre la complessità a slogan, sostituire l’analisi con l’istinto, la discussione con il riflesso. Non importa che Mamdani sia nato trent’anni dopo gli eventi dell’11 settembre, né che New York, oggi, sia una delle città più aperte e multietniche del pianeta. L’importante è associare due concetti: islam e pericolo. È il modo più rapido per alimentare un pregiudizio, senza bisogno di pronunciare apertamente una frase razzista.
Il razzismo in Italia funziona così: raramente urla, quasi mai si dichiara, ma s’insinua nel linguaggio. Vive nelle allusioni, nei sottintesi, nei “non sono razzista, ma…”. È un razzismo elegante, disinfettato, travestito da ironia. E quando a praticarlo è un leader politico, diventa un modello, un segnale. Il post di Salvini non è stato una gaffe, ma un’operazione perfettamente calcolata. Sapeva di ottenere approvazione da chi, da anni, si nutre di quel tipo di narrazione: quella che divide il mondo in “noi” e “loro”, dove “noi” siamo sempre le vittime innocenti e “loro” sempre il pericolo in agguato. È la stessa formula che viene usata contro i migranti, contro le minoranze, contro qualsiasi forma di alterità. E funziona, perché parla alla pancia di un Paese che non ha mai veramente fatto i conti con il proprio razzismo.
Zohran Mamdani, con la sua vittoria, non è diventato solo sindaco di New York. È diventato, suo malgrado, una proiezione simbolica. Il suo nome è stato risucchiato dentro un dibattito che non lo riguarda, trasformato in pretesto per riaffermare stereotipi. È il destino di chi rappresenta il cambiamento: essere ridotto a bersaglio. La notizia della sua elezione avrebbe potuto aprire un discorso su integrazione, su meritocrazia, su politica progressista. Invece ha generato un riflesso identitario che, in Italia, è diventato quasi automatico. Salvini ha semplicemente detto ciò che molti pensano e non dicono. E il fatto che possa dirlo senza conseguenze è la misura esatta di quanto il razzismo, nel nostro Paese, sia ormai interiorizzato.
Non si tratta solo di un post. Si tratta del linguaggio che usiamo. Ogni parola ha un peso, e chi ha potere mediatico ha la responsabilità di scegliere con cura. Dire “sindaco musulmano” invece di “nuovo sindaco di New York” non è un dettaglio: è un atto politico. Significa fissare l’identità come primo elemento di giudizio, annullando la persona, il merito, il contesto. Significa ricordare che, nel dibattito pubblico, non contano i fatti ma le appartenenze. E in questo gioco di specchi la realtà si deforma, il pensiero critico muore e il pregiudizio si trasforma in normalità.
Il razzismo contemporaneo non ha più bisogno di bandiere o di insulti plateali. È sufficiente una tastiera, un social network e un linguaggio calibrato per evocare senza dire. È il razzismo 2.0, quello che si diffonde attraverso la complicità di chi condivide, di chi commenta con un sorriso, di chi pensa che “in fondo non ha detto niente di male”. Ma quel “niente di male” è esattamente il problema. È lì che si annida la legittimazione del disprezzo. E quando arriva dall’alto, da chi siede al governo o da chi rappresenta milioni di persone, diventa sistema.
L’Italia ha un problema di linguaggio, e il linguaggio, quando si deteriora, trascina con sé la realtà. Se per descrivere un evento storico come un’elezione serve ricordare un attentato terroristico di ventiquattro anni prima, significa che il dibattito è morto. Che non esiste più distinzione tra cronaca e propaganda. Che il razzismo non è un residuo del passato, ma un dispositivo politico attivo. Il post di Salvini su Mamdani è un esempio perfetto di questa patologia: un pensiero breve, calibrato per ottenere consenso facile, costruito su tre elementi che evocano paura, identità e sospetto. È l’algoritmo della discriminazione.
New York, intanto, ha scelto. Ha scelto un sindaco giovane, capace, laico, inclusivo. L’Italia, invece, ha scelto di reagire con diffidenza. Forse perché la diversità ci spaventa più della mediocrità. Forse perché preferiamo credere che la nostra identità sia fragile e vada difesa anche quando non è minacciata. Forse perché il razzismo, nel nostro Paese, è la più comoda delle abitudini. In fondo è rassicurante: divide il mondo in bianco e nero, e ci risparmia la fatica di pensare.
Ma la verità è che nessuno perde qualcosa se un musulmano diventa sindaco di New York. Anzi, il mondo guadagna qualcosa: un segnale che la storia può ancora sorprenderci, che la politica può ancora avere il coraggio di scegliere chi unisce invece di chi divide. E se in Italia quel segnale non arriva, è perché abbiamo deciso di tenerci stretti i nostri pregiudizi, come se ci definissero meglio della nostra intelligenza.
Matteo Salvini ha detto la sua. Ma, ancora una volta, il suo linguaggio ha svelato più dell’oggetto del commento: ha svelato un Paese che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi. Il razzismo in Italia non nasce dai post, ma trova nei post il suo ecosistema ideale. E mentre il mondo si muove, noi restiamo fermi, prigionieri di parole tossiche travestite da opinioni.
✍️ Testo e analisi di Max Ramponi
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