Quando la pausa pranzo diventa un incubo: il/la collega che telefona a tutta la famiglia
- Max RAMPONI

- 14 nov
- Tempo di lettura: 5 min
La pausa pranzo è quel momento che si apre come una crepa luminosa nella giornata, una sospensione sottile in cui la realtà sembra rallentare e l’aria, per una volta, si fa gentile. Non chiedi molto: solo un angolo di tregua, un po’ di silenzio, la possibilità di sederti, aprire il contenitore del pranzo e lasciarti avvolgere da quella piccola, preziosa armonia che si forma senza sforzo. C’è un rituale nel modo in cui ti sistemi, un gesto che ha qualcosa di antico: la forchetta che affonda nel cibo con calma, lo schermo del pc che si illumina con la promessa di un giornale da leggere, un paio di notizie, una scrollata innocente, magari qualche acquisto online che non farai mai. È un giardino segreto dove nessuno entra, un paesaggio silenzioso in cui i rumori si fanno ovattati, i neon sembrano trattenere il fiato e persino i pensieri camminano più piano. La pausa non è una pausa: è un rifugio. Ogni piccolo gesto contribuisce a creare quell’armonia fragile che scivola addosso come una stoffa leggera. Si sente la pace nei muscoli che lentamente si allentano, nelle spalle che abbandonano la rigidità, nel respiro che comincia a muoversi con un ritmo meno meccanico. La scrivania si trasforma in un’isola neutrale, un avamposto dove le pretese del mondo rimangono fuori a bussare senza essere ammesse. Una serenità così semplice che sembra quasi irreale. E proprio quando tutto sembra perfetto, quando il silenzio tocca la sua soglia più alta, quando la calma raggiunge quella purezza cristallina che si prova solo in quei rari momenti di equilibrio, ecco che accade ciò che nessun essere umano dovrebbe mai essere costretto a vivere. La detonazione. Non un rumore. Non una voce. Una deflagrazione. Il telefono del/della collega. Una parola sparata nell’aria come un proiettile, una vibrazione che ti attraversa il cranio e ti manda in frantumi la pace con la brutalità di un ordigno. In un secondo tutto crolla: la pausa si accartoccia, la tranquillità evapora, il silenzio si disintegra. E dentro quella frattura, dentro quel taglio improvviso, sai che sta per arrivare la valanga telefonica che travolgerà ogni cosa. Ti basta un istante per capire che è finita. La quiete non tornerà più.
La voce del/della collega non entra: si insinua. Scivola tra un morso e l’altro come una goccia d’olio bollente caduta sulla pelle, e tu capisci subito che non è una semplice telefonata. È un’invasione. Un’infiltrazione sonora. Un assedio domestico portato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, davanti alla persona sbagliata: te. Parte sempre allo stesso modo, con quel «Ciaoooo» stiracchiato che somiglia a un’allarme antincendio, e da lì la traiettoria è una caduta libera nel baratro delle chiacchiere inutili. Prima la madre. Perché la madre è un obbligo biologico. «Hai preso il pane? No, il pane vero… quello buono… te l’ho detto mille volte…» La pausa si incrina. Poi arriva l’aggancio alla seconda linea emotiva: il partner. «Sì amore, sì, te l’ho detto, sì, dopo passo io… no amore, non così… no, devi fare come ti ho spiegato ieri… sì, proprio così… no, ascolta, ascolta bene…» La sua voce rimbalza come uno yo-yo lanciato da un sadico. Continui a masticare, ma ogni boccone perde sapore. Provi a concentrarti sullo schermo, a sfogliare una notizia, a salvarti in una pagina web come un naufrago aggrappato a un relitto, ma niente: il timbro della sua voce scava, gratta, appiccica. È come un moscerino chiuso in un barattolo: rimbalza ovunque, non si stanca, non si ferma. Il ritmo aumenta. Cambia interlocutore. «Ziaaa! Ciao zia! No, zia, ascolta… sì, ho visto il nipote… sì, sì, stava bene… no, non lo so se aveva la felpa blu o quella grigia… sì, sì, la stessa che aveva l’altra volta… no, non quella, l’altra… zia aspetta, fammi pensare…» Il mondo diventa una gigantesca puntata di una soap opera di cui non hai mai chiesto di conoscere la trama.
Ogni dettaglio casalingo viene pronunciato con un entusiasmo quasi religioso, come se tu dovessi esserne coinvolto per forza. E mentre lui/lei continua a parlare, la pazienza ti scivola via come sabbia da una mano sudata. È un crescendo asfissiante. Non c’è ossigeno. Non c’è scampo. Senti il sangue nelle tempie, il rumore ovattato del fastidio puro che sale come febbre. E quando pensi che non possa andare oltre, arriva il colpo di grazia: «Sì, mamma… sì… lo so… la suocera oggi non sta bene… eh sì… sì, sì, lo so che ha quel problema… sì… sì, proprio lì… sì, mamma… sì, sì, lo so…» L’informazione che nessuno vorrebbe ascoltare, mai, in nessun mondo, in nessuna dimensione, arriva come una mazzata sulla nuca. Parla della suocera, dei suoi problemi gastrointestinali, con una naturalezza che sfiora la delinquenza sociale. Tu fissi il pc, ma non stai più leggendo niente. Sei prigioniero di quella voce. La pausa è morta. L’armonia è stata giustiziata in diretta. La telefonata continua, martellante, una grandinata di parole che non concede tregua. Cerchi di salvarti come puoi, tenti qualsiasi diversivo mentale pur di non essere trascinato in quel fiume di dettagli domestici non richiesti. Apri un articolo a caso, poi un altro, poi un altro ancora, ma la voce attraversa tutto, filtra ovunque, si insinua tra le sinapsi come muffa umida. Allora cerchi qualcosa di più estremo: un tutorial online di aramaico antico. Non per cultura, non per curiosità, ma come si ingoia un analgesico, nella speranza di stordire il cervello. Ripeti parole incomprensibili, tenti di memorizzarle, provi a tradurre mentalmente frasi apparentemente sagge, ma la voce del/della collega entra lo stesso nelle pieghe della grammatica semitica, e le sillabe sacre si sporcano di discussioni su pannolini e intestini delicati.
Il fastidio sale. Ti aggrappi agli oggetti sulla scrivania come a boe in mare aperto. Osservi l’etichetta della bottiglietta dell’acqua, la leggi tutta, lentamente, due volte, tre volte. Poi passi alla tazza, al caricatore, al mouse, alla confezione di salviette igienizzanti. Le leggi al contrario, come un monaco tibetano in crisi mistica. Cerchi di tradurle in aramaico, nella speranza che l’antica lingua dei profeti possa proteggerti dal bombardamento fonico che arriva da due sedie più in là. Ma non c’è rito, non c’è mantra, non c’è religione che ti salvi.
La scena del pannolino sporco della suocera — raccontata con quella naturalezza criminale, quella disinvoltura che sfiora l’attentato acustico — si è ormai incisa nella mente. È un’immagine che non vuoi, non cerchi, non desideri, ma che si siede davanti agli occhi come un’ombra sgradevole. Parli con un collega e la vedi. Guardi il monitor e la vedi. Ti volti verso la finestra e la vedi ancora, come un’icona blasfema che ha deciso di eleggere domicilio permanente nel tuo cervello. Ogni dialogo diventa un campo minato. Ogni frase viene filtrata da quell’immagine orrenda che non vuole più andarsene.
E mentre il/la collega continua, imperterrito/a, a narrare la saga dei malesseri familiari, senti che la tua ultima briciola di sanità si aggrappa a un’immagine primordiale: andare da lui/lei, prendere il telefono privato — il suo, quello avvelenato dalle conversazioni tossiche — strapparglielo dalle mani con una grazia feroce e lanciarlo fuori dalla finestra con la solennità di un sacrificio agli dèi della quiete. Guardarlo cadere giù in un volo liberatorio e poi dirgli/le con voce ferma, limpida, finalmente sincera: «Chiudi quella fogna. La cacca della suocera non ci interessa.»
Solo allora la pausa, forse, potrebbe tornare a somigliare a una pausa. Una parentesi fragile, salvata in extremis dall’olocausto telefonico quotidiano. E tu, superstite silenzioso, potresti rimettere in ordine la scrivania, respirare di nuovo e sperare che il pantheon degli uffici, un giorno, abbia pietà.
✍️ Testo e analisi di Max Ramponi
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