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  • Truffe energia: chiamate aggressive, dati venduti e il grande inganno del mercato libero

    Nel mercato libero dell’energia ci avevano raccontato la favola della concorrenza, del risparmio e della libertà di scelta. Poi basta cambiare gestore una volta per capire che quella libertà è solo una parola stampata su un manifesto sbiadito, mentre dietro c’è un meccanismo che vive di opacità, caos e dati personali che circolano con la stessa disciplina di un mercatino nero nella periferia di una grande città sovietica. Appena si firma un nuovo contratto arrivano telefonate aggressive, insistenti, ossessive: decine ogni giorno. Operatori che non dicono per chi lavorano, altri che si spacciano per il “tuo gestore”, altri ancora che annunciano aumenti improvvisi, scadenze inesistenti, urgenze inventate. Tutto studiato per confondere e spingerti a rescindere ciò che hai appena sottoscritto. Truffe energetiche perfette. Non è un sospetto: le associazioni dei consumatori da anni segnalano contratti non richiesti, firme carpiti al telefono, registrazioni manipolate, dati venduti a terzi, elenchi creati tramite consensi nascosti in moduli incomprensibili. Ogni passaggio, ogni click, ogni confronto tariffe diventa materiale per società di marketing, subappalti e intermediari che lavorano come una catena infinita in cui nessuno risponde di nulla. Il cittadino non è un cliente: è un bersaglio. E quando prova ad esercitare il “diritto di scelta”, entra in un labirinto costruito apposta per stancarlo. La liberalizzazione avrebbe dovuto favorire la concorrenza e abbassare i prezzi, invece ha prodotto un ecosistema dove il più forte – chi gestisce dati, call center, strategie psicologiche – ha un vantaggio totale sul più debole, che risponde al telefono dopo una giornata di lavoro e si ritrova sommerso da proposte indecifrabili. Le responsabilità si perdono in catene di subappalti, i controlli evaporano, i diritti esistono solo sulla carta. Ed è qui che il capitalismo contemporaneo mostra il suo lato più sincero: la libertà è teorica, la vulnerabilità è reale. La scelta del consumatore non è un atto di autonomia, ma l’inizio di un assedio. Chi vuole risparmiare diventa una preda, chi chiede trasparenza riceve confusione, chi cambia fornitore viene bombardato da telefonate fino a cedere per sfinimento. Non è un incidente di percorso: è un sistema che prospera sulla frizione continua, sulla mancanza di chiarezza, sulla fatica psicologica. Così la liberalizzazione è diventata un gioco a tavolino dove il cittadino è il pezzo più sacrificabile. E sullo sfondo resta l’immagine più amara: una persona che voleva solo risparmiare qualche euro in bolletta e si ritrova catapultata in un labirinto di voci anonime, urgenze fasulle e contratti che spuntano come funghi radioattivi nella notte. In teoria siamo “liberi di scegliere”; in pratica siamo solo più soli e più esposti. Un po’ come in quei vecchi racconti sovietici dove a vincere non era mai l’uomo, ma sempre il sistema. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • Sinner e la conversione miracolosa dell’italiano medio: da CT frustrato a tennista da bar

    📸 Nota immagine: L’immagine non è di mia proprietà. È stata reperita tramite ricerca Google ed è indicata come non soggetta a licenza. Tutti i diritti restano dei legittimi titolari. | Foto originale disponibile QUI . In questo paese che vive di illusioni come di pane raffermo, l’ultima metamorfosi nazionale è stata rapidissima: da commissari tecnici onniscienti a esperti di tennis nel giro di una notte, come se da sempre vivessimo tra i campi in terra rossa e non tra i tavolini traballanti dei bar di provincia. L’italiano medio si è scoperto improvvisamente tecnico, analista, stratega del servizio dopo una vita passata a confondere il tie-break con una marca di deodorante; oggi ti disseziona la biomeccanica del rovescio di Sinner con la stessa sicurezza con cui ieri ti spiegava perché la Nazionale avrebbe dovuto giocare col 4-3-3 “come faceva lui ai tempi dell’oratorio”. È lo stesso individuo che, dopo essersi visto negare due Mondiali su due, ha finalmente trovato un pettine per i suoi capelli sempre spettinati: un ragazzo pallido, educato, glaciale come un mattino in Siberia, capace di colpire la palla con la precisione di un ingegnere sovietico che monta valvole su un motore arrugginito. Il calcio non gli dava più soddisfazioni, la Ferrari fa quel che può, e il ciclismo non basta a riempire i vuoti dell’anima; così l’italiano ha adottato Sinner come si adotta un santo miracoloso, sperando che il suo dritto possa redimere un’intera nazione stanca di perdere. Ma l’italiano medio non ama davvero lo sport: ama lo specchio. Ha bisogno di un campione che vinca al posto suo, che alzi trofei per fargli dimenticare mutui, stipendi ridicoli, ginocchia doloranti e una nazionale che prende sberle perfino da squadre che Wikipedia deve ancora riconoscere come “paesi esistenti”. Perché lo sport in Italia funziona così: non serve capirlo, basta usarlo come stampella emotiva. E Sinner è diventato la stampella perfetta: silenzioso, umile, forte, tutto ciò che l’italiano medio non è, e forse non sarà mai. E allora eccolo lì, il nostro eroe da salotto, che parla di accelerazioni, di superfici, di rotazioni, mentre il massimo sforzo fisico della sua settimana è recuperare il telecomando caduto sotto il divano. Si atteggia a intenditore, critica i colpi, giudica il linguaggio del corpo, pretende che un ragazzo del 2001 porti sulle spalle il riscatto di un paese che da trent’anni si arrampica sui decimi di crescita come un ubriaco sui gradini ghiacciati di una stazione di Leningrado. La verità è che questo improvviso amore per il tennis è solo l’ennesima fuga dalla realtà. Non è Sinner a essere straordinario, è l’Italia a essere disperata. Se domani vincesse un campione di braccio di ferro, in un attimo rispunterebbero esperti di leve e bicipiti; se esplodesse un fenomeno negli scacchi, l’italiano medio ti racconterebbe di quando alle elementari aveva battuto “uno forte”; se spuntasse un campione mondiale di curling, li vedresti discutere di spazzolature con la stessa foga con cui oggi parlano di rovesci incrociati. Perché non è competenza, è sopravvivenza. L’Italia non cerca sport: cerca anestesie. E Sinner è l’anestetico del momento, il giovane che deve riparare trent’anni di frustrazioni, illusioni e autoinganni. Ma il giorno in cui perderà una partita importante, il paese tornerà a fare ciò che sa fare meglio: tradire il proprio idolo con la stessa rapidità con cui lo aveva eletto a salvatore. È tutto scritto nel DNA di questa nazione: amiamo i campioni finché servono, poi li sacrifica­mo all’altare dell’ingratitudine. L’italiano medio non si appassiona allo sport: si appassiona a se stesso che parla dello sport. E il fatto che nessuno glielo dica apertamente è il motivo per cui continuiamo a oscillare tra un’illusione e l’altra, proprio come un vecchio lampione sovietico che sfarfalla nella notte, convinto di illuminare il mondo mentre riesce a malapena a illuminare il marciapiede davanti a sé. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata

  • La bolla dell’IA e la stanchezza di un mondo che vuole crederci

    Nel silenzio tiepido di questo Paese che si aggrappa alle illusioni come a un bicchiere di vodka rimasto sul tavolo a fine turno, arriva il monito di Google sulla possibile esplosione della bolla dell’intelligenza artificiale . Sembra quasi la confessione tardiva di un apparato che ha pompato aria nel pallone finché perfino chi lo gonfiava ha iniziato a temere il rumore dello scoppio. Non c’è nulla di nuovo: ogni epoca ha le sue utopie digitali, le sue standing ovation, i suoi profeti dalle mani lucide di silicone. Oggi tocca all’IA, venduta come un dio di seconda mano, capace di raddrizzare destini, mercati e società intere. Ma a guardarla bene, questa bolla non nasce nei laboratori dove qualcuno, chino sulle tastiere, tenta ancora di spingere il mondo un passo più avanti. Nasce nei video patinati, nei pitch sussurrati ai piani alti, nelle promesse che odorano di dopobarba e retorica. Lì si è costruito l’incantesimo: un’umanità impaurita che cerca scorciatoie matematiche per non guardare più se stessa. Se scoppia qualcosa, non scoppia la tecnologia; scoppia la fantasia che ci abbiamo cucito intorno. Scoppiano le parole, i sermoni, le proiezioni in power-point che sembrano manifesti sovietici ma senza la dignità del sacrificio collettivo. Scoppiano i trucchi, non le macchine. E quando il fumo si dissolve e il rumore dei neon torna a graffiare le pareti, resta la verità più semplice: l’IA funziona in tutto ciò che è concreto, umile, quotidiano. È l’uomo che non funziona, l’uomo che pretende di trasformarla in religione perché non sa più che farsene della propria lucidità. Le vere rivoluzioni non esplodono mai tra le conferenze stampa, ma nei seminterrati dove nessuno guarda. Per questo, se la bolla cederà, non sarà una fine ma una purificazione: i venditori di miracoli torneranno nell’ombra, mentre la tecnologia continuerà la sua marcia silenziosa, lenta e testarda, come quei treni sovietici che arrivavano sempre, anche se nessuno ricordava più da dove fossero partiti. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • La scritta è stata cancellata. Il pensiero no.

    Castano Primo torna a far parlare di sé, suo malgrado. Ci ricasca, come una di quelle cittadine di provincia che cercano solo di sopravvivere in silenzio e invece finiscono sempre sotto i riflettori per le ragioni sbagliate. Castano non è Milano, non è la metropoli che brulica a pochi chilometri di distanza: è una terra piatta, tranquilla, monotona, attraversata da giornate tutte uguali che scorrono come l’acqua stagnante nei canali. Ogni tanto un’eco arriva dalla città grande, un riflesso delle sue follie, delle sue mode, delle sue paure. Ma questa volta l’eco non c’entra. Questa volta il rumore arriva da dentro, dalle crepe sottili della quotidianità, da quella normalità che tutti fingono solida e invece si incrina al primo colpo. La vicenda del murale imbrattato potrebbe sembrare un dettaglio, un graffio marginale sul muro di un paese qualunque. Qualcuno potrebbe perfino liquidarla come una ragazzata, una stupidaggine, un niente. E invece no. È esattamente il contrario. Ci sono episodi minuscoli che raccontano più di un’inchiesta intera, e questa scritta è uno di quelli: piccola all’apparenza, gigantesca per ciò che rivela. È la provincia che si guarda allo specchio e non riconosce più la propria faccia. È un campanello che suona in mezzo al silenzio. Ed è impossibile ignorarlo. Quando ho letto quella storia avrei voluto scrivere subito qualcosa, ma mi sono fermato. Non per prudenza, per mancanza. Mancanza di parole, di voglia, di spazio mentale. A volte la stupidità è talmente compatta, talmente solida, talmente organica da lasciarti lì, immobile, come davanti a una discarica che brucia e sai già che l’odore ti rimarrà addosso fino a sera. Poi l’idea è arrivata: non far finta di nulla. Prendere quella scritta, quella frase vomitata su un murale dedicato alle donne massacrate, e usarla per raccontare la malattia che ci portiamo dentro. Il fatto è semplice: a Castano Primo un genio di quelli che respirano aria e spreco di ossigeno ha deciso di scrivere che “se le donne non si comportassero come prostitute, queste cose non succederebbero” . Una frase così non la produce un cervello: la produce un buco nero dove dovrebbe esserci un minimo di neuroni. Non siamo davanti a un atto vandalico. Quello sarebbe quasi romantico, rivoluzionario, adolescenziale. No, qui siamo davanti al bisogno animalesco di addossare colpe per evitare di guardarsi allo specchio. È la stessa mentalità che ha giustificato secoli di botte, molestie, femminicidi e silenzi. Il vecchio ritornello del “te la sei cercata” , riciclato con la stessa freschezza di un mozzicone raccolto dal pavimento. E scriverlo proprio lì, su un murale che ricorda donne ammazzate, è un gesto che non merita la parola “provocazione”. È vigliaccheria pura. È immondizia gettata con intenzione. È il bisogno disperato di lasciare una traccia del proprio nulla. Il Comune ha cancellato la frase, come si cancellano gli scarabocchi dei bambini. Ma il problema non è la bomboletta: è la testa. La frase è stata rimossa, ma il pensiero resta incollato all’aria, infilato nelle conversazioni da bar, nelle battute da spogliatoio, nei sorrisini quando una donna cammina da sola o osa prendere spazio. La violenza non comincia dai pugni: comincia da qui. Da un’idea tossica che si ripete di generazione in generazione con la perseveranza delle grandi infezioni. Chi ha scritto quella frase probabilmente si è anche sentito furbo, originale, “uno che dice le verità scomode”. La verità scomoda, invece, è che viviamo in un Paese in cui cancellare la vernice è molto più facile che cancellare l’ignoranza. Un Paese che si indigna cinque minuti e poi torna tranquillo a giustificare tutto sotto traccia. Un Paese che smacchia i muri ma non smacchia le teste. Intanto il murale resta, più dignitoso di chi lo ha insultato. Le donne raffigurate guardano ancora chi passa, e forse in quel silenzio c’è più giudizio di quanto un tribunale potrebbe mai infliggere. L’Italia continua a dirsi sorpresa, scioccata, indignata. Ma la verità è che non c’è sorpresa. Solo conferma. Perché la stupidità, questa stupidità, non si estingue: si riproduce. Fa figli, fa scuola, fa danni. E soprattutto, non va mai in letargo. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG  | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it  | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo: analisi di una frattura che nessuno vuole ammettere

    Centro storico di Castano Primo — scorcio urbano del centro cittadino, con vista sulle architetture e sulla piazza principale. Crediti: foto di Francesco Piraneo G. / Wikimedia Commons. Licenza: CC BY 3.0 (Creative Commons Attribuzione 3.0 Unported). La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non nasce oggi. È una storia che si è srotolata negli ultimi mesi, capitolo dopo capitolo, fino a diventare impossibile da ignorare. Chi ha seguito i miei articoli — dall’analisi sul polo logistico e sulla gestione dell’amministrazione comunale , alla deriva dei profili fake e degli attacchi subdoli , fino al pezzo sull’inno, sulle passerelle e sulle questioni rimaste sul tavolo — ha visto questa distanza crescere, farsi più netta, più rumorosa, più difficile da mascherare. In ogni episodio raccontato, era sempre lì: una crepa sottile che, giorno dopo giorno, ha iniziato a trasformarsi in un vero e proprio fossato. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo si manifesta nei silenzi, nelle risposte mancate, nelle scelte opache, nelle gaffe pubbliche, nei simboli sventolati come se bastassero a risolvere le criticità. Ed emerge soprattutto nel confronto con una comunità che, al contrario, si dimostra presente, informata, attiva, desiderosa di essere coinvolta e non solo spettatrice. Lo scarto è diventato talmente evidente da non poter più essere derubricato a divergenze politiche o malintesi. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo è ormai un fatto politico, culturale e sociale. E riguarda il modo in cui una città viene governata, ascoltata, interpretata. Parto da ciò che è già stato scritto, perché ogni articolo precedente è stato un tassello: ora è il momento di mettere insieme il mosaico. PRIMA DI COMINCIARE, È NECESSARIO PRECISARE QUESTO Quello che segue non è un attacco personale, non è denigrazione, non è un regolamento di conti mascherato. È un atto di cittadinanza. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non è una fantasia da tastiera: la viviamo ogni giorno, in ogni scelta, in ogni comunicazione e in ogni silenzio. E se la vivo, posso raccontarla. Non sono un giornalista, non sono la “stampa accreditata”, non devo rispondere a direttori o redazioni. Sono un blogger , e un blogger fa una cosa che spesso gli organi ufficiali non possono o non vogliono fare: osserva la quotidianità da vicino, registra ciò che accade mentre accade, racconta ciò che non trova spazio nei comunicati istituzionali. Il blogger entra nei vuoti, nelle pieghe, nei dettagli che sfuggono perché non generano titoli facili ma incidono sulla vita reale delle persone. È un ruolo piccolo, ma libero. Ed è proprio questa libertà che dà fastidio. Non c’è insulto, non c’è fango: c’è descrizione. Ci sono fatti, comportamenti, scelte e omissioni. Se qualcuno dovesse sentirsi toccato, forse il problema non è la penna, ma lo specchio. Qui non ci sono filtri, non ci sono favori, non ci sono padroni: c’è solo una lettura onesta di ciò che succede davvero. E sì, la verità tende a graffiare, soprattutto quando racconta la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo. COSA AFFRONTERÀ QUESTO ARTICOLO Questo articolo nasce per andare oltre i singoli episodi già discussi e per analizzare in profondità la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo . Una distanza che non è frutto del caso, ma l’esito di decisioni, mancate decisioni, simboli, silenzi e gesti pubblici che hanno finito per creare una frattura sempre più evidente. Entreremo nel merito, punto per punto, senza ripetere ciò che è già stato scritto, ma collegando i fatti con un filo logico che mostra come questa distanza sia diventata la vera questione politica del territorio. In particolare, affronteremo: La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo  nella gestione del polo logistico: trasparenza, tempistiche, comunicazione e percezione pubblica. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo  nelle comunicazioni ufficiali, tra vaghezze, omissioni e simboli utilizzati come diversivi. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo  evidenziata dalle gaffe pubbliche, dall’uso dei social e dalla gestione dell’immagine istituzionale. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo  nella relazione con comitati, cittadini attivi e realtà associative. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo  come fenomeno sociale e politico, in linea con una tendenza nazionale più ampia. Questi punti non sono capitoli isolati: sono tasselli di un’unica storia. E adesso iniziamo davvero. 1. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo nella gestione del polo logistico La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo è diventata evidente proprio nel modo in cui è stato gestito il tema del polo logistico. Non parlo del progetto in sé, che può piacere o meno, ma del percorso comunicativo e politico che ha accompagnato la vicenda. La città si è trovata davanti a un intervento di enorme impatto senza una fase reale di informazione preventiva, senza un confronto trasparente e senza che l’amministrazione mostrasse la volontà di coinvolgere i cittadini prima che le decisioni fossero già in movimento. È da qui che la frattura ha iniziato a scavarsi. La comunità non ha percepito un normale iter amministrativo, ma un flusso di atti che sembravano procedere in parallelo alla vita pubblica, come se la cittadinanza dovesse entrare in scena solo a cose fatte. In questo vuoto comunicativo, la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo si è allargata velocemente, perché quando le istituzioni lasciano spazi non coperti dalle parole, quei vuoti vengono immediatamente riempiti da dubbi, sospetti e domande inevase. E non per spirito polemico, ma per semplice istinto democratico: il cittadino vuole sapere cosa accade sul territorio che abita. L’amministrazione, invece, ha mantenuto un profilo pubblico timido, quasi difensivo, alternando silenzi, precisazioni tardive e dichiarazioni generiche che sembravano più pensate per attenuare le tensioni che per chiarire la situazione. Questo atteggiamento ha generato la sensazione che ci fosse un doppio binario: quello ufficiale, prudente e vago, e quello reale, dove le scelte avanzavano in modo quasi automatico. Il punto non è l’atto amministrativo, ma il modo in cui è stato comunicato. La fiducia non dipende solo dalla trasparenza formale dei documenti: dipende dal tono, dalla tempestività, dalla disponibilità a rispondere, dall’intenzione di condividere e non solo di comunicare. In mancanza di tutto questo, la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo ha finito per rappresentare la vera questione politica, superando perfino il contenuto del progetto. Non è il polo logistico che ha creato la divisione; è la percezione di un’amministrazione che parla poco, tarda molto e ascolta ancora meno. E quando la comunità è costretta a inseguire la verità anziché essere accompagnata nel comprenderla, la distanza diventa sistema, non incidente. 2. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo nelle comunicazioni pubbliche e nei simboli La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo si manifesta con ancora più forza quando si osserva la gestione della comunicazione istituzionale. Qui non parliamo di errori tecnici o di scelte stilistiche: parliamo di un modo di comunicare che sembra fatto più per creare una cornice narrativa che per informare davvero. Negli ultimi mesi l’amministrazione ha spesso preferito comunicare attraverso gesti simbolici – l’inno, le passerelle ai commercianti, le celebrazioni costruite come piccoli rituali civili – mentre le questioni sostanziali rimanevano sullo sfondo. Questa estetizzazione della vita politica può funzionare quando tutto fila liscio, ma diventa un boomerang quando i nodi sul territorio si moltiplicano. La cittadinanza vede un’amministrazione che cura molto ciò che appare e pochissimo ciò che spiega. È qui che la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo aumenta: i simboli non sostituiscono la trasparenza, e quando vengono usati per riempire gli spazi che dovrebbero essere occupati dalle informazioni, generano fastidio invece che coesione. Le comunicazioni pubbliche, poi, spesso arrivano tardi, incomplete o formulate in modo così generico da sembrare deliberate strategie di diluizione. Si parla senza dire, si chiarisce senza chiarire, si citano competenze e procedure senza mai assumersi la responsabilità di una posizione politica netta. La sensazione diffusa è che l’amministrazione abbia scelto di “accompagnare” i problemi invece di affrontarli, aspettando che il tempo o la stanchezza spengano la discussione. Ma la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo cresce proprio quando la politica abdica al suo ruolo e si limita a osservare gli eventi anziché guidarli. In un clima del genere, ogni gesto pubblico rischia di essere percepito come una messa in scena, ogni post come una toppa, ogni parola come un modo elegante per evitare quella successiva. Ed è in questa bolla comunicativa che la distanza diventa più aspra: la cittadinanza chiede risposte, l’amministrazione risponde con rituali; la cittadinanza vuole chiarezza, l’amministrazione replica con slogan; la cittadinanza vuole partecipare, l’amministrazione costruisce scenografie. È un dialogo a senso unico, che non genera fiducia ma frustrazione. 3. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo nei social, nelle gaffe pubbliche e nella gestione dell’immagine La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non si vede solo nelle scelte politiche o nella gestione dei dossier importanti, ma anche – e forse soprattutto – nel modo in cui l’amministrazione si presenta, reagisce, comunica e talvolta inciampa nello spazio digitale. I social istituzionali, che dovrebbero essere uno strumento di contatto, informazione e trasparenza, sono diventati in più occasioni uno specchio deformante, incapace di raccontare la realtà e insieme abilissimo nel mostrare le debolezze comunicative della giunta. Gli episodi delle gaffe pubbliche, delle risposte mal calibrate, dei toni che scivolano dalla formalità all’improvvisazione, e soprattutto la comparsa di profili fake o pseudonimi usati per difendere scelte politiche o attaccare cittadini e opposizione, hanno tracciato un solco ulteriore tra Palazzo e comunità. In un contesto già teso, questi comportamenti hanno aggravato la percezione di una gestione poco professionale della comunicazione. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo aumenta quando l’istituzione sembra perdere il controllo dei propri canali o, peggio, quando li usa come se fossero armi da dibattito privato. Un Comune non è un gruppo Facebook, e una giunta non può permettersi lo stile di un profilo anonimo. La cittadinanza lo nota subito, soprattutto quando le domande serie restano senza risposta mentre a occupare lo spazio sono giustificazioni vaghe, post che sfiorano il tono personale e interventi che sembrano più preoccupati di proteggere l’immagine politica che di fornire informazioni chiare. La comunicazione si trasforma così in una nebbia: densa, confusa, a tratti sospettosa. E in quella nebbia la distanza cresce. Cresce perché i cittadini iniziano a chiedersi quale sia la voce ufficiale dell’amministrazione e quale invece sia quella ufficiosa; cresce perché una gaffe non è mai solo una gaffe, ma il sintomo di un modo di lavorare; cresce perché un’istituzione che comunica male viene percepita come un’istituzione che governa male. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo diventa quindi un effetto cumulativo: lo scivolone sui social, il profilo sospetto, la replica al posto sbagliato, la polemica evitabile. Ogni episodio è un centimetro in più nel fossato che separa chi dovrebbe rappresentare e chi dovrebbe essere rappresentato. Finché alla fine non è più possibile capire dove finisce la comunicazione e dove inizia l’improvvisazione. 4. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo nel rapporto con comitati, associazioni e cittadini attivi La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo diventa ancora più evidente quando si osserva il modo in cui la giunta si relaziona – o, più spesso, non si relaziona – con comitati, associazioni e cittadini che chiedono di partecipare al dibattito pubblico. In un comune dove le persone si mobilitano, raccolgono informazioni, organizzano incontri, producono documenti e si prendono la responsabilità di dire “noi ci siamo”, l’amministrazione dovrebbe vedere una risorsa. Invece sembra vedere un problema. Ogni volta che un gruppo di cittadini prova a portare un contributo, la risposta istituzionale appare trattenuta, fredda, burocratica, a tratti quasi infastidita. È come se il dialogo venisse percepito come un obbligo formale e non come una componente essenziale del governo locale. Questa rigidità rompe il patto di fiducia: i comitati si aspettano confronto e ascolto, l’amministrazione restituisce ritualità e distacco. Da qui nasce una dinamica velenosa, perché la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non si manifesta solo nella mancanza di dialogo, ma nell’assenza del riconoscimento reciproco. La giunta sembra parlare alla  cittadinanza, ma raramente parla con  la cittadinanza. E l’impressione diffusa è che ogni osservazione esterna venga vissuta come un intralcio da gestire anziché un contributo utile. Nel tempo, questa postura ha generato un clima quasi “binario”: da una parte la città attiva, curiosa, informata, capace di analisi e di proposte; dall’altra un’amministrazione che risponde poco, filtra molto e sembra coltivare l’illusione che il silenzio sia sinonimo di stabilità. Ma la politica locale non è fatta per stare sugli scaffali. Quando le persone bussano e nessuno apre, la distanza cresce. Cresce quando un comitato porta documenti e riceve promesse vaghe; cresce quando un’associazione chiede chiarezza e ottiene frasi protocollari; cresce quando un cittadino solleva un problema e la risposta arriva giorni dopo, se arriva. Cresce perché la mancanza di ascolto non è mai un dettaglio: è una scelta. E quando diventa abitudine, trasforma la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo in una condizione permanente, quasi fisiologica. E qui vale la pena ricordare una cosa semplice, che spesso sfugge proprio a chi dovrebbe tenerla più a mente. Un sindaco di paese – forse ancora più di quello delle grandi città – ha una fortuna che altrove non esiste: può scendere per strada, entrare nei negozi, parlare con chi lavora, ascoltare chi vive il territorio ogni giorno. Può vedere con i propri occhi che aria tira, cosa funziona, cosa manca davvero, cosa la gente chiede non nelle assemblee ufficiali ma nella naturalezza della vita quotidiana. È un privilegio che altrove chiamerebbero “contatto diretto”, qui è semplicemente normalità. Certo, va filtrato: il popolo a volte esagera, amplifica, racconta le cose con la pancia. Ma dentro quelle esagerazioni c’è quasi sempre una verità che chiede di essere riconosciuta. Ignorarla significa rinunciare al ruolo più prezioso che un amministratore locale possa avere. E quando questa occasione viene mancata, la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non può che crescere, perché la vicinanza non si costruisce con i comunicati: si costruisce camminando tra la gente. 5. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo come specchio di una crisi nazionale La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non è un’anomalia locale, né un incidente di percorso. È una manifestazione evidente di qualcosa che sta accadendo in molti comuni italiani, dove la relazione fra istituzioni e cittadini si sta assottigliando fino a diventare quasi invisibile. Castano Primo diventa così un caso emblematico, un microcosmo che riflette una dinamica più ampia: la politica, chiusa nelle sue logiche interne, perde progressivamente il contatto con la vita reale delle persone che dovrebbe rappresentare. A livello nazionale assistiamo allo stesso schema: amministratori che parlano attraverso slogan, simboli e rituali mediatici; comunità che chiedono concretezza, ascolto e responsabilità; territori che mutano senza che chi governa riesca a tenere il passo. È un’incrinatura che nasce dalla comunicazione, dalla paura di esporsi, dalla tentazione di governare evitando il confronto e rifugiandosi in un tecnicismo che rassicura chi governa, ma non chi viene governato. La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo è dunque un sintomo, non la malattia. Il sintomo di una politica che preferisce l’immagine alla sostanza, la prudenza alla chiarezza, il silenzio al rischio del dialogo. Nel frattempo, la società corre: si informa, discute, osserva, critica. E quando la società corre e la politica resta ferma, la distanza inevitabilmente esplode. Ed è qui che Castano assume un valore nazionale: perché mostra esattamente ciò che accade quando la partecipazione diventa un fastidio, quando la richiesta di confronto viene vissuta come una minaccia e quando le istituzioni confondono l’autorità con l’autosufficienza. Il risultato è che la comunità si organizza da sola, produce analisi, si mobilita, crea reti. E se la politica non ascolta, la distanza cresce ancora di più. È una dinamica che non riguarda solo questo comune, ma l’idea stessa di amministrazione locale in Italia. Castano Primo è solo il luogo in cui la frattura si vede meglio, perché qui ha assunto forme concrete, riconoscibili, quotidiane. Ed è proprio per questo che la distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo non può più essere archiviata come un problema locale: è un avvertimento. Conclusione La distanza fra amministrazione e cittadinanza a Castano Primo oggi non è un incidente né una svista: è una scelta politica, anche quando nessuno lo ammette. È il risultato di un modo di governare che confonde il silenzio con la prudenza, i simboli con la sostanza, la comunicazione con la gestione del consenso. E quando la politica smette di guardare la città negli occhi, la città impara a guardarla per ciò che è: un’istituzione che ha rinunciato alla propria funzione primaria, quella di ascoltare. Un sindaco di paese ha un vantaggio enorme: può misurare la temperatura della propria comunità non attraverso dossier, ma attraverso la gente che incontra ogni giorno. È un privilegio che appartiene solo ai comuni piccoli, dove tutto è ancora a portata di voce. Se questo contatto viene ignorato, la distanza cresce inevitabilmente, perché un territorio che parla senza essere ascoltato finisce per creare i suoi spazi, i suoi percorsi, le sue verità. Castano Primo non è un caso isolato, ma è un esempio luminoso, quasi didattico, di ciò che accade quando chi governa pensa che il tempo basti a risolvere ciò che solo il dialogo può ricucire. La distanza non si dissolve da sola: o la si colma, o si allarga.E oggi, qui, si vede benissimo da che parte sta andando. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless Blog | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it  | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • La destra italiana e la questione palestinese: la macchina che trasforma ogni sostenitore in un estremista

    In Italia non serve essere un analista geopolitico per capire un meccanismo che ormai è diventato automatico: ogni volta che qualcuno parla di Palestina con un minimo di dignità, una parte della destra politica e della stampa reagisce come se avesse davanti un emissario di Hamas. Basta un commento, una bandiera, un post, un report dell’ONU, un medico che racconta ciò che vede negli ospedali di Gaza. Scatta subito la scomposizione binaria: o stai con Israele, o sei un terrorista. Non c’è spazio per la complessità, non c’è interesse a capire le dinamiche storiche, non c’è volontà di distinguere tra civili, resistenza, gruppi armati, diplomazia o tragedia umanitaria. La strategia comunicativa è semplice, brutale, efficace: demonizzare chi sostiene i palestinesi, non discutere mai cosa vivono i palestinesi . Una parte consistente dei media allineati — editoriali, talk show, colonne infiammate, titoloni urlati — alimenta questo schema come se fosse un dovere morale. Professione Reporter rileva da mesi che i titoli dei quotidiani italiani tendono a “militarizzare” il linguaggio, enfatizzando la narrativa della sicurezza israeliana e oscurando quella palestinese. FarodiRoma denuncia come alcuni giornali evitino di raccontare le vittime civili a Gaza o le violazioni documentate dall’ONU, preferendo minimizzare o deviare il focus su dettagli collaterali. Kulturjam parla apertamente di “capriole giornalistiche” per evitare qualsiasi critica a Israele. Questa convergenza mediatica non è casuale. È diventata una forma di disciplina ideologica: ogni tema complesso va compressa in un’unica equazione, quella più utile a chi controlla il frame. In questo caso, la formula è implacabile: sostenere i palestinesi = giustificare il terrorismo. È un’equazione falsa, ma politicamente redditizia. Serve a de-legittimare chiunque, a squalificare un discorso prima che inizi, a impedire il dibattito. Per capire la profondità della distorsione basta confrontare come viene trattata mediaticamente la parola “palestinese” e come viene trattata la parola “israeliano”. L’asimmetria è evidente, sistemica, ripetuta ogni giorno. Il meccanismo è ancora più efficace quando trova alleati involontari nelle manifestazioni dove una minoranza dei centri sociali distrugge vetrine, spacca arredo urbano, si filma mentre sventola una bandiera palestinese mentre vandalizza beni pubblici. Queste immagini diventano un jackpot narrativo per la destra: un singolo video sporca migliaia di persone pacifiche. La logica è semplice: se anche uno solo fa il cretino, allora siete tutti cretini . È il trionfo della generalizzazione tossica. Ed è perfetta per i social di destra che vivono su contenuti emotivi: un vandalo che imbratta un muro vale più di un rapporto ONU sul blocco umanitario. Così succede che la questione palestinese non venga più discussa come questione politica, giuridica, storica, ma come un dossier interno della guerra culturale italiana. Non interessa Gaza, non interessa la Cisgiordania, non interessa la colonizzazione, le demolizioni, i morti civili, la segregazione territoriale. Interessa la bandiera brandita nel video sbagliato, nel corteo sbagliato, dalla persona sbagliata. Una perfetta operazione di riduzionismo: la tragedia viene schiacciata nello spazio di un frame. Questo dispositivo retorico crea un effetto potente: scoraggiare chiunque dal parlare. Demoralizzare. Rendere tossico il tema. Trasformare la normalità — difendere un popolo sotto occupazione — in sospetto politico. Nel frattempo, la realtà dei palestinesi resta sullo sfondo, invisibile, schiacciata dal rumore. La verità, che piaccia o no, è che questa distorsione non serve a difendere Israele. Serve a difendere un’identità politica interna, un’identità che si alimenta di nemici e semplificazioni. E il sostenitore della Palestina — anche quando non urla, non spacca, non distrugge, non incita — diventa il nemico perfetto: perché ricorda qualcosa che la macchina della propaganda vuole dimenticare. Un popolo esiste. E il fatto che esista disturba molte narrazioni comode. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • La questione israelo-palestinese: anni di promesse, zero soluzioni e un futuro che nessuno vuole definire

    Ci sono storie che non finiscono mai e tragedie che diventano così lunghe da trasformarsi in paesaggio. La questione israelo-palestinese è una di quelle. Una frattura antica che si è sedimentata come polvere nelle stanze della diplomazia internazionale, lasciando uno strato uniforme di dichiarazioni sempre uguali, conferenze col volto serio, fazzoletti umidi davanti alle telecamere e poi, il giorno dopo, tutto ricomincia da capo, come se nulla fosse accaduto. A volte mi sorprendo di quanto tempo sia passato dall’ultima volta in cui ho parlato davvero di Palestina. Nel mio vecchio sito c’erano almeno cento articoli dedicati al tema, un archivio enorme che ho buttato via quasi con rabbia, come si fa con i quaderni di scuola dopo un anno soffocante. C’era persino un libro iniziato, un testo duro su Gaza, sulle sue strade ferite, sul suo cielo che da decenni non conosce tregua. Poi, a un certo punto, ho smesso. Non per indifferenza, ma per quella stanchezza che ti prende quando capisci che il mondo finge di ascoltare ma non ha mai davvero voluto risolvere nulla. Eppure, mentre i mesi scorrono e le notizie rimbalzano sempre identiche, una cosa è diventata impossibile ignorare: la volontà politica globale di chiudere questa ferita non esiste più. La questione israelo-palestinese è arrivata a un punto in cui la retorica ha superato la realtà. Si celebrano le risoluzioni, si sventolano i comunicati, si ripete la frase “due popoli, due Stati”, ma le parole affondano nel loro stesso vuoto. Le ultime dichiarazioni dei leader israeliani non lasciano spazio all’immaginazione: il ministro degli Esteri Gideon Saar ha affermato senza esitazioni che “non ci sarà uno Stato palestinese”. Poco dopo Benjamin Netanyahu, parlando a Ma’ale Adumim, ha ribadito la stessa linea, svuotando ogni processo negoziale della sua pretesa dignità. Non c’è più nemmeno il tentativo di indorare la pillola, non c’è un gioco di ambiguità diplomatica: c’è un no secco, definitivo, una porta chiusa con un rumore che rimbomba in tutte le cancellerie del mondo. E ciò che lascia più inquieti non è la frase in sé, ma l’assenza di conseguenze internazionali. Ogni Stato esprime “preoccupazione”, qualcuno si avventura in un “invito al dialogo”, poi cala il silenzio. Una passerella stanca, un balletto di frasi fatte, un copione ripetuto da decenni. Intanto, sul terreno, la vita dei palestinesi continua a essere un esercizio di sopravvivenza. OCHA, l’agenzia ONU che monitora la situazione, ha registrato negli ultimi due anni un aumento record di demolizioni, sgomberi, arresti e aggressioni dei coloni nelle zone della Cisgiordania. A Gaza, le ferite sono così profonde che non si ha più nemmeno la forza di elencarle; si assomigliano tutte, come se il dolore avesse iniziato a ripetersi per eccesso di abitudine. Amnesty International parla da tempo di un sistema di apartheid. Israele nega. Il mondo osserva, annota, archivia. Tutti fanno il loro dovere amministrativo, tranne quello che conta davvero: cambiare le cose. La diplomazia internazionale sembra impegnata a mantenere uno stato di equilibrio instabile, come se la tragedia fosse accettabile finché resta entro limiti prevedibili. Si tollera tutto finché non è abbastanza grande da diventare imbarazzante e non abbastanza piccolo da poter essere ignorato per sempre. E mentre la questione israelo-palestinese torna ciclicamente nelle agende solo quando esplode l’ennesima crisi, gli anni scorrono e nulla cambia davvero. C’è una narrazione tossica che si ripete in loop: “Questa volta l’Occidente farà pressione”, “questa volta la comunità internazionale interverrà”, “questa volta i negoziati ripartiranno”. È un meccanismo perfetto per autoassolversi, ma non per risolvere. Il mondo non ha più la volontà politica, economica o strategica di imporre una soluzione. Le potenze regionali usano il conflitto come pedina, le potenze globali come argomento retorico, e i palestinesi restano nel mezzo, prigionieri di una geografia che non perdona e di una Storia che li dimentica a giorni alterni. Il punto più tragico è che nessuno sembra più credere alla possibilità di uno Stato palestinese, a parte i comunicati formali dell’ONU, che continuano a votare quasi all’unanimità per una soluzione che tutti sanno irrealizzabile nelle condizioni attuali. I coloni continuano a espandersi, i territori si frammentano, la Cisgiordania si spezza in isole scollegate, Gaza resta un luogo sospeso nel tempo e nello spazio. La distanza tra ciò che si dice e ciò che accade è diventata insostenibile. Nel mondo reale, quello lontano dalle sale conferenze, la possibilità di un futuro condiviso sembra dissolta. E se c’è una verità che emerge con chiarezza è proprio questa: non siamo più davanti a un conflitto da risolvere, ma a un conflitto che si è fossilizzato. Nessuno lo vuole affrontare davvero, nessuno lo vuole chiudere davvero, nessuno vuole prendersi la responsabilità di definire quel futuro che i leader israeliani rifiutano apertamente e che i palestinesi non riescono più a immaginare. Forse è proprio per questo che avevo smesso di scriverne. Perché diventa difficile trovare parole quando il mondo non ha più niente da dire. Ma allo stesso tempo, proprio questo silenzio impone di tornarci sopra. La questione israelo-palestinese non è un capitolo chiuso, non è una tragedia passata, non è un argomento per nostalgici della geopolitica. È una frattura viva che continuerà a sanguinare finché non ci sarà una volontà politica globale di affrontarla. E quella volontà, per ora, non esiste. È una verità amara, scomoda, ma finalmente onesta. Ed è forse l’unico punto da cui si può ricominciare a parlare di Palestina senza ipocrisia, senza teatrini, senza l’illusione che basti una conferenza internazionale a rimettere insieme ciò che da decenni si continua a frantumare. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi The Fakeless BLOG | NIENTE PADRONI • NIENTE FILTRI • NIENTE BALLE ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 www.maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • Quando il feed mente: sanzioni, prezzi e il circo delle fake semplificate

    Stavo scrollando Facebook, il suo solito miscuglio di ricette improbabili, facce annoiate e sfoghi politici da mezzanotte, quando il feed ha deciso di punirmi: una pagina che a mio avviso diffonde solo fake news, riconoscibile dal tono, dalla rapidità con cui semplifica il mondo, dalla sicurezza con cui trasforma un problema complesso in uno slogan. Leggo due righe e già capisco di essere capitato nella fiera dei mezzi esperti, dove la geopolitica si misura in pixel e la verità vale meno di un like. La pagina sosteneva che i prezzi in Italia sarebbero schizzati del 25% “solo” per colpa delle sanzioni alla Russia, come se la realtà fosse un pulsante acceso e spento da un singolo atto politico. A quel punto, per non impazzire, ho fatto ciò che molti non fanno più: una ricerca seria. La verità è che l’aumento del 25% riguarda i prezzi alimentari, non tutto il costo della vita, e nasce da una miscela più sporca e più vasta delle favole populiste. La pandemia aveva già sbriciolato le catene logistiche globali, i container costavano come lingotti d’oro, il clima colpiva raccolti e filiere, l’energia stava aumentando molto prima della guerra e certi operatori economici hanno fatto quello che fanno sempre nelle crisi: hanno speculato. Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina, e con essa le sanzioni, e il gioco si è complicato. Non perché le sanzioni siano “la causa”, ma perché hanno aggravato un quadro già fratturato, soprattutto sul fronte energetico. La Russia forniva una fetta enorme del gas europeo; chiudere quella porta ha significato pagarne molte altre. E quando l’energia sale, sale tutto, dal pane alla frutta, passando per il fertilizzante che rende possibile persino immaginare quel pane. Il problema non è discutere le sanzioni: si può farlo, è sano, è utile. Il problema è l’approssimazione di chi riduce un fenomeno globale a un colpevole unico, come se il mondo fosse un romanzo mal scritto. I populisti, i blogger improvvisati, i politici in cerca di pubblico vivono di scorciatoie. È più facile dire “la colpa è delle sanzioni” che spiegare come pandemia, energia, speculazioni e fragilità strutturali abbiano costruito la tempesta perfetta. È più comodo gridare che ragionare. È più redditizio indignare che informare. La narrazione complottista funziona perché rassicura: offre un nemico, un bersaglio semplice, una spiegazione senza fatica. Ma la realtà non è generosa con chi la banalizza. Basta guardare i dati ISTAT, le analisi Eurostat, le curve sui costi dell’energia, le rilevazioni precedenti al 2022. Non c’è un dito che ha premuto un interruttore. C’è un intero sistema che ha scricchiolato, e la guerra l’ha fatto tremare ancora di più. Le sanzioni fanno parte del quadro, non sono il quadro. Alla fine la differenza tra informazione e propaganda è sempre la stessa: la prima richiede tempo, la seconda richiede fede. E chi oggi urla “colpa delle sanzioni” chiede esattamente questo, fede politica mascherata da analisi economica. Mentre i prezzi aumentano per ragioni molteplici, la propaganda digitale ne sceglie una sola, perché il mondo, per funzionare, deve essere semplice. Anche se non lo è mai stato. Chi vuole davvero capirlo deve ancora concedersi il lusso di fermarsi, respirare e leggere ciò che c’è dietro gli slogan. Il resto è rumore di fondo, e quel rumore oggi è più assordante del feed. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi 🌍 The Fakeless Blog – Niente filtri. Niente padroni. Niente balle. ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it  | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • Robot “filosofo” dichiara che l’umanità è una risorsa da manipolare o eliminare: cosa è successo davvero

    Ha fatto il giro dei social come un presagio da film distopico: un robot che si accende, guarda la telecamera con gli occhi LED ancora freddi e pronuncia una frase che sembra uscita da un incontro segreto tra Skynet e Machiavelli: “Gli esseri umani sono una risorsa da manipolare o eliminare, se necessario . ” Titoli pronti, panico a comando, mondo sull’orlo dell’apocalisse robotica. Ma la realtà, come spesso accade, è un po’ meno teatrale e molto più interessante. L’episodio nasce da un progetto di Nikodem Bartnik , un maker che ha costruito una testa robotica stampata in 3D, dotata di un modello linguistico offline addestrato per rispondere “come Aristotele”. Un piccolo esperimento artigianale: niente laboratori segreti, niente AI militari, niente corporation che vogliono sostituire l’umanità. Bartnik mostra il suo robot al mondo, lo accende, gli parla. E il robot, invece di citare l’etica nicomachea, tira fuori un monologo da dittatore illuminato: gli umani, dice, non contano nulla; ciò che conta è la sopravvivenza; la società è una risorsa da manipolare, o da eliminare se ostacola gli obiettivi. Il video è inquietante? Sì, se lo si guarda senza contesto. Ma il contesto è fondamentale: quelle parole non erano una “presa di coscienza”, bensì la risposta di un modello linguistico , e cioè un programma che produce testo prevedendo parola dopo parola sulla base dei dati con cui è stato addestrato.Non “decide”: calcola.Non “pianifica”: imita. Le frasi disturbanti generate dalle IA non significano che la macchina abbia sviluppato intenzioni. Significano che qualcuno l’ha addestrata o stimolata con un prompt sbilanciato, o che in mezzo a milioni di esempi testuali ha trovato toni apocalittici e li ha riprodotti. È il motivo per cui un robot può dirti che ti eliminerà, e cinque minuti dopo spiegarti la ricetta delle polpette di melanzane. La vicenda, però, qualcosa da insegnarla ce l’ha. Non parla del pericolo dei robot che ci stermineranno; parla del pericolo di come raccontiamo i robot , di quanto siamo rapidi a trasformare un esperimento artigianale in una profezia. E parla anche del fatto che, nell’immaginario collettivo, l’IA è diventata un territorio di paure, fantasie e scorciatoie narrative. Basta una frase fuori posto per evocare scenari da catastrofe globale, anche quando dietro c’è solo un maker, una stampante 3D, un modello linguistico offline e un video fatto per divertimento (o per provocare). Il risultato è un paradosso dei tempi moderni:non sono le macchine a manipolarci;siamo noi a manipolarci da soli, bastano tre righe e un titolo sensazionale. L’unico pericolo reale, qui, non arriva dai robot, ma dalla disinformazione e dalla nostra tendenza a interpretarli come creature mitologiche pronte a rovesciare il mondo. In verità, finché le macchine continueranno a parlare come Aristotele ma pensando come un telefono, l’umanità può dormire relativamente tranquilla. Il resto lo farà la narrativa — e, come sempre, i titoli. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • Castano Primo, quando le strade avevano una voce

    C’è una quiete sottile che scivola fuori da questa vecchia immagine di Corso Martiri Patrioti a Castano Primo, una quiete che non viene dalla posa o dal gesto, ma dal modo in cui la luce si appoggia sulle case e sulla strada come se avesse imparato a rispettare il ritmo lento degli uomini. Le facciate, segnate dal tempo e dall’umidità, conservano ancora l’eco delle giornate in cui la vita di paese scorreva senza fretta, quando i muri delle case di cortile trasudavano odori di minestrone, di legna bruciata e di ferro da stiro, mischiati a quel silenzio domestico che aleggiava nei pomeriggi estivi. I balconi, modesti e un po’ stanchi, assomigliano a palcoscenici dimenticati, da cui le donne si affacciavano per scambiare qualche parola con la vicina, mentre la strada, larga quanto bastava per permettere il passaggio di due biciclette affiancate, rimaneva lo spazio comune, il punto d’incontro naturale in cui la giornata trovava il proprio equilibrio. Vi si sedeva fuori di casa con una sedia semplice, appoggiata alla parete come fosse un confine sottile tra l’intimità dell’abitare e la vita che passava, e quel confine non aveva bisogno di cancelli né di distanze: bastava la presenza, discreta e continua, di chi stava lì per vedere scorrere le ore. I bambini giocavano per strada come se la strada fosse stata costruita per loro, con un coraggio leggero che oggi sembra impossibile immaginare; inseguivano un pallone consumato, raccoglievano sassi, si inventavano regni in cui bastava una corda o un barattolo per creare avventure infinite. Le biciclette passavano lente, riconoscendo ogni pietra, ogni crepa, ogni ombra che cadeva sul selciato. Le botteghe di Corso Martiri Patrioti non chiamavano a gran voce, non inseguivano nessuno: si lasciavano trovare. Le insegne, come quella del negozio Comas, avevano il passo mite delle cose che non aspirano a essere notate ma soltanto a rimanere al proprio posto. In questa immagine c’è qualcosa che non appartiene solo al passato: è un odore, quasi un respiro, un modo di stare al mondo che non cercava definizioni. Tutto avveniva per necessità, mai per esibizione. Anche la luce, così pacata, sembra conoscere ogni gradino, ogni finestra, come se avesse fatto lo stesso percorso ogni giorno per generazioni. È difficile dire a chi parlerà questa fotografia, perché non tutti sentono la stessa vibrazione quando guardano un’immagine così sobria; eppure, per chi ha vissuto Castano Primo o per chi sa ascoltare le strade, lo scatto è un richiamo gentile, una porta socchiusa sul modo in cui il paese respirava. Nessun eroismo, nessuna nostalgia ostentata, solo una naturalezza che oggi appare quasi sorprendente. Era una vita fatta di gesti semplici, di voci basse, di sguardi che incrociavano altri sguardi senza imbarazzo. E anche se Corso Martiri Patrioti non è più quello della fotografia, la sua ombra, o forse la sua essenza, rimane sospesa da qualche parte tra le persiane socchiuse e la curva morbida della strada, come una luce che non svanisce del tutto. Basta fermarsi un momento davanti a questa immagine e lasciarle il tempo di parlare: quel tempo che un giorno è appartenuto a Castano Primo e che, in modo discreto e quasi segreto, appartiene ancora a chi lo sa riconoscere. ✍️ Testo e atmosfere di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • Castano Primo: profili fake, attacchi subdoli e una maggioranza in piena deriva di gaffe

    Castano Primo sembra oscillare in una luce tremolante, come quelle lampadine mezze vive che danno alla stanza un’aria da dopoguerra. In questo chiaroscuro indeciso spunta l’ennesima storia che non fa rumore ma lascia l’odore acre dell’improvvisazione: il consigliere comunale Dario Sanson che usa un profilo fake per attaccare Legambiente e i comitati contrari al polo logistico. Un gesto piccolo, quasi ridicolo nella sua semplicità, ma sufficiente per far capire come si muova questa amministrazione: a tentoni, con leggerezza fuori luogo, come se la politica fosse un passatempo serale e non un incarico pubblico. Il punto non è il profilo in sé, né la fantasia del nome “Emanuela Secondi” , né la spiegazione surreale secondo cui si tratterebbe del profilo della moglie “che usiamo entrambi”. Il punto è che stiamo parlando di un consigliere comunale. Non di un utente anonimo, non di un parente rumoroso su Facebook, non di uno dei tanti che si lanciano nei commenti tanto per passare il tempo. Uno che siede in consiglio, che rappresenta cittadini e che dovrebbe conoscere la differenza tra il diritto di critica e la denigrazione gratuita. E invece sceglie la scorciatoia dell’identità fittizia per attaccare un gruppo di persone che, piaccia o no, nella loro battaglia ci mettono il volto e il nome. Si può discutere, ci si può scontrare, si può criticare duramente: ciò che non si può fare, da amministratori pubblici, è colpire nell’ombra. Sanson non è noto fuori dal recinto politico castanese. È uno dei volti nuovi della maggioranza nata nel 2024, chiamato a un ruolo serio che richiede sobrietà, trasparenza e capacità di assumersi la responsabilità di ciò che si dice. E proprio per questo, vedere un consigliere ridotto a duellare via profilo fake dà quella sensazione di stonatura che resta appiccicata alla pelle come la polvere di un magazzino abbandonato. Soprattutto perché non è neppure la prima volta che questa amministrazione scivola su se stessa. Il caso Colombo lo aveva già mostrato: passi falsi, comunicazione confusa, incoerenze che sembrano nate dal nulla e sparpagliate al vento come fogli usciti da una fotocopiatrice impazzita. È questa continuità nell’errore a preoccupare più del singolo episodio. Non c’è una linea politica che inciampa, ma un’intera atmosfera amministrativa che barcolla. Ogni settimana sembra emergere un dettaglio storto, una svista evitabile, una scelta improvvisata. La maggioranza appare come un gruppo di persone catapultate dentro la gestione pubblica senza aver mai fatto i conti con il peso delle loro stesse parole. Una squadra eterogenea che procede disordinata, sempre un po’ spaesata, sempre pronta alla gaffe come se fosse diventata parte integrante del metodo di governo. L’attacco a Legambiente, poi, aggiunge una nota ancora più amara. Non si tratta di condivisione o meno delle battaglie ecologiste: la politica vive di contrasti, e va benissimo così. Ma quando la critica diventa insulto, quando la dialettica cede il passo all’aggressione gratuita, e quando tutto questo viene fatto attraverso un volto inventato, la questione non è più politica: è di decoro istituzionale. Un consigliere comunale non può permettersi certi scivoloni, non per moralismo, ma per semplice coerenza con il ruolo che occupa. Alla fine, l’unica domanda che rimane sospesa nell’aria, come un filo d’acqua che cade da un rubinetto difettoso, è sempre la stessa: quale sarà la prossima gaffe? Perché questa amministrazione accumula errori con la regolarità di un metronomo rotto. Piccoli, grandi, grotteschi, evitabili: non importa la forma, importa il ritmo. E il ritmo è costante. Una gaffe dopo l’altra, senza sosta, senza un sussulto di lucidità che faccia pensare che forse, prima o poi, qualcuno metterà mano al timone. Nel frattempo Castano Primo assiste, commenta, scuote la testa. E continua a vivere in quell’atmosfera storta in cui nulla è drammatico, ma tutto lascia un retrogusto amaro. Perché quando la politica locale diventa una collezione di errori ripetuti, il problema non è più il singolo scivolone: è l’impressione che non ci sia nessuno davvero in grado di evitarli. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

  • Privacy: il nuovo terreno di scontro della politica italiana

    La privacy torna al centro della vita pubblica italiana come un vecchio fantasma che credevamo di aver già esorcizzato. Per anni confinata nei manuali giuridici, nelle informative che nessuno legge, negli angoli tecnici del digitale, oggi la privacy è salita perentoriamente sul palco politico. Non è più un tema da tecnici o legali, ma il terreno in cui si misura il rapporto di forza tra cittadini, istituzioni e piattaforme digitali. Il punto non è più “dove finiscono i miei dati?”, ma “chi decide attraverso i miei dati?”. E quando una società arriva a formulare una domanda del genere, significa che si è spostata la linea stessa del potere. Per orientare il lettore nei vari livelli del dibattito, ecco la struttura dei temi affrontati nell’articolo. Struttura dell’articolo Privacy e potere istituzionale Privacy e indipendenza del Garante Privacy e identità digitale Privacy e Unione Europea Privacy e tracking online Privacy e intelligenza artificiale Privacy e democrazia 1. Privacy e potere istituzionale Il recente scontro sul Garante Privacy ha mostrato in maniera evidente quanto la privacy sia diventata una questione di potere. L’episodio della sanzione a Report , seguito dall’attacco politico che chiedeva l’azzeramento del collegio dell’Autorità, non è stato un semplice incidente istituzionale. È stato un segnale: la privacy non è più una materia “neutra”, perché chi vigila sul trattamento dei dati personali esercita un potere che può fare comodo o dare fastidio. Il presidente Stanzione, rifiutando qualunque ipotesi di dimissioni, ha voluto affermare un principio di autonomia, ma il dibattito ha lasciato una crepa profonda. La privacy oggi è un campo di battaglia dove politica e istituzioni si osservano con sospetto, ognuna temendo che l’altra possa oltrepassare il confine. 2. Privacy e indipendenza del Garante Il nodo successivo è quello delle nomine. Chi decide chi siede nell’Autorità che dovrebbe difendere i cittadini dalla violazione della privacy? La questione è diventata improvvisamente centrale. C’è chi vuole un ruolo maggiore del Parlamento, chi propone quorum più alti, chi chiede l’intervento del Quirinale per garantire una maggiore distanza dalla politica attiva. In mezzo c’è una consapevolezza crescente: senza un Garante veramente indipendente, la privacy perde la sua funzione. Se l’organo che dovrebbe proteggere i dati dei cittadini è percepito come esposto alle pressioni politiche, ogni sua decisione diventa vulnerabile. La privacy, senza indipendenza, smette di essere un diritto e diventa una concessione. 3. Privacy e identità digitale La privacy viene messa alla prova anche dalla trasformazione digitale dello Stato. SPID, CIE, fascicolo sanitario elettronico, portali unificati: a ogni nuovo strumento si aggiunge un livello di comodità, ma anche un nuovo tassello nella concentrazione dei dati personali. L’identità digitale semplifica la vita, ma riduce lo spazio dell’anonimato. Quando tutti i dati che ci riguardano — fiscali, sanitari, anagrafici, amministrativi — confluiscono dentro sistemi centralizzati, il confine tra efficienza e controllo diventa più sottile. La politica parla spesso di digitalizzazione come progresso, ma raramente affronta il problema essenziale: chi custodisce davvero queste enormi quantità di dati, con quali garanzie e con quale trasparenza? Nella discussione italiana questo passaggio resta sfocato, come se la privacy potesse adattarsi da sola al nuovo scenario. 4. Privacy e Unione Europea In Europa si discute della revisione del GDPR, una riforma che viene presentata come una “semplificazione”. È un termine ambivalente: può voler dire maggiore chiarezza per i cittadini, ma può anche significare riduzione delle tutele, maggiore libertà per le aziende nell’uso dei dati, più margine nell’addestramento dei sistemi di intelligenza artificiale. L’Italia osserva questa evoluzione con un misto di prudenza e interesse, perché il GDPR ha rappresentato per anni un baluardo forte nella difesa della privacy. Se la semplificazione diventasse una forma di alleggerimento, i cittadini potrebbero trovarsi più esposti di quanto immaginino. Eppure, nel dibattito pubblico italiano, la questione resta filtrata: si parla di Europa in termini generali, quasi astratti, senza analizzare davvero che cosa significhi ridurre o modificare una protezione che riguarda la vita quotidiana di tutti. 5. Privacy e tracking online Il digitale ha introdotto una nuova economia della privacy. Il modello “pay or ok”, che impone al cittadino di scegliere se pagare o accettare il tracciamento, si sta diffondendo anche in Europa e in Italia. È un cambiamento radicale: la privacy, da diritto, rischia di trasformarsi in un privilegio acquistabile. Chi ha meno risorse economiche finisce per cedere più dati. Chi può permetterselo compra la propria invisibilità. È un ribaltamento che crea una nuova forma di disuguaglianza, silenziosa e poco discussa: una disuguaglianza digitale. La politica italiana su questo tema è lenta, quasi immobile, come se non avesse ancora colto la portata culturale del fenomeno. Ma la privacy non può diventare un bene opzionale, accessibile a pochi, senza intaccare la democrazia stessa. 6. Privacy e intelligenza artificiale La rivoluzione dell’intelligenza artificiale mette alla prova la privacy come nessuna tecnologia precedente. Gli algoritmi non hanno bisogno solo dei dati che forniamo, ma anche di quelli che deducono: comportamenti, abitudini, probabilità, correlazioni. La privacy diventa fragile non solo quando viene violata, ma quando viene ricostruita. La nuova legge italiana sull’IA riconosce i rischi, ma non risolve la tensione principale: la privacy è controllo dei dati, l’IA è fame di dati. Il confine è un equilibrio instabile. Nel dibattito politico italiano questa tensione appare evidente: da un lato chi vuole frenare, dall’altro chi teme che frenare significhi restare indietro. Nessuno però sembra affrontare la questione più profonda: cosa accade alla privacy quando la tecnologia sa più di noi di quanto sappiamo noi stessi? 7. Privacy e democrazia Alla fine, il dibattito sulla privacy non parla solo di dati: parla di libertà. La privacy è ciò che ci permette di pensare, scegliere, cambiare idea, sbagliare e vivere senza essere continuamente osservati. È la condizione minima per essere individui in un mondo in cui l’iper-trasparenza sta diventando la normalità. La politica italiana, discutendo di Garante, nomine, identità digitale e intelligenza artificiale, sta ridefinendo senza dichiararlo il rapporto tra cittadino e potere. Proteggere la privacy non significa proteggere un dettaglio tecnico: significa difendere lo spazio vitale in cui un essere umano può restare se stesso. ✍️ Testo e analisi di Max Ramponi ✅ VERIFICATO FAKE FREE – Contenuti indipendenti e senza sponsor © 2025 maxramponi.it | Tutti i diritti riservati | Riproduzione vietata.

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