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La destra italiana e la questione palestinese: la macchina che trasforma ogni sostenitore in un estremista

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 17 nov
  • Tempo di lettura: 3 min

PALESTINA

In Italia non serve essere un analista geopolitico per capire un meccanismo che ormai è diventato automatico: ogni volta che qualcuno parla di Palestina con un minimo di dignità, una parte della destra politica e della stampa reagisce come se avesse davanti un emissario di Hamas. Basta un commento, una bandiera, un post, un report dell’ONU, un medico che racconta ciò che vede negli ospedali di Gaza. Scatta subito la scomposizione binaria: o stai con Israele, o sei un terrorista. Non c’è spazio per la complessità, non c’è interesse a capire le dinamiche storiche, non c’è volontà di distinguere tra civili, resistenza, gruppi armati, diplomazia o tragedia umanitaria. La strategia comunicativa è semplice, brutale, efficace: demonizzare chi sostiene i palestinesi, non discutere mai cosa vivono i palestinesi.


Una parte consistente dei media allineati — editoriali, talk show, colonne infiammate, titoloni urlati — alimenta questo schema come se fosse un dovere morale. Professione Reporter rileva da mesi che i titoli dei quotidiani italiani tendono a “militarizzare” il linguaggio, enfatizzando la narrativa della sicurezza israeliana e oscurando quella palestinese. FarodiRoma denuncia come alcuni giornali evitino di raccontare le vittime civili a Gaza o le violazioni documentate dall’ONU, preferendo minimizzare o deviare il focus su dettagli collaterali. Kulturjam parla apertamente di “capriole giornalistiche” per evitare qualsiasi critica a Israele.

Questa convergenza mediatica non è casuale. È diventata una forma di disciplina ideologica: ogni tema complesso va compressa in un’unica equazione, quella più utile a chi controlla il frame. In questo caso, la formula è implacabile: sostenere i palestinesi = giustificare il terrorismo. È un’equazione falsa, ma politicamente redditizia. Serve a de-legittimare chiunque, a squalificare un discorso prima che inizi, a impedire il dibattito.

Per capire la profondità della distorsione basta confrontare come viene trattata mediaticamente la parola “palestinese” e come viene trattata la parola “israeliano”. L’asimmetria è evidente, sistemica, ripetuta ogni giorno.


Il meccanismo è ancora più efficace quando trova alleati involontari nelle manifestazioni dove una minoranza dei centri sociali distrugge vetrine, spacca arredo urbano, si filma mentre sventola una bandiera palestinese mentre vandalizza beni pubblici. Queste immagini diventano un jackpot narrativo per la destra: un singolo video sporca migliaia di persone pacifiche.


La logica è semplice: se anche uno solo fa il cretino, allora siete tutti cretini. È il trionfo della generalizzazione tossica. Ed è perfetta per i social di destra che vivono su contenuti emotivi: un vandalo che imbratta un muro vale più di un rapporto ONU sul blocco umanitario.


Così succede che la questione palestinese non venga più discussa come questione politica, giuridica, storica, ma come un dossier interno della guerra culturale italiana. Non interessa Gaza, non interessa la Cisgiordania, non interessa la colonizzazione, le demolizioni, i morti civili, la segregazione territoriale. Interessa la bandiera brandita nel video sbagliato, nel corteo sbagliato, dalla persona sbagliata. Una perfetta operazione di riduzionismo: la tragedia viene schiacciata nello spazio di un frame.

Questo dispositivo retorico crea un effetto potente: scoraggiare chiunque dal parlare. Demoralizzare. Rendere tossico il tema. Trasformare la normalità — difendere un popolo sotto occupazione — in sospetto politico. Nel frattempo, la realtà dei palestinesi resta sullo sfondo, invisibile, schiacciata dal rumore. La verità, che piaccia o no, è che questa distorsione non serve a difendere Israele. Serve a difendere un’identità politica interna, un’identità che si alimenta di nemici e semplificazioni. E il sostenitore della Palestina — anche quando non urla, non spacca, non distrugge, non incita — diventa il nemico perfetto: perché ricorda qualcosa che la macchina della propaganda vuole dimenticare. Un popolo esiste. E il fatto che esista disturba molte narrazioni comode.

✍️ Testo e analisi di Max Ramponi

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