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La questione israelo-palestinese: anni di promesse, zero soluzioni e un futuro che nessuno vuole definire

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 16 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

palestina

Ci sono storie che non finiscono mai e tragedie che diventano così lunghe da trasformarsi in paesaggio. La questione israelo-palestinese è una di quelle. Una frattura antica che si è sedimentata come polvere nelle stanze della diplomazia internazionale, lasciando uno strato uniforme di dichiarazioni sempre uguali, conferenze col volto serio, fazzoletti umidi davanti alle telecamere e poi, il giorno dopo, tutto ricomincia da capo, come se nulla fosse accaduto. A volte mi sorprendo di quanto tempo sia passato dall’ultima volta in cui ho parlato davvero di Palestina. Nel mio vecchio sito c’erano almeno cento articoli dedicati al tema, un archivio enorme che ho buttato via quasi con rabbia, come si fa con i quaderni di scuola dopo un anno soffocante. C’era persino un libro iniziato, un testo duro su Gaza, sulle sue strade ferite, sul suo cielo che da decenni non conosce tregua. Poi, a un certo punto, ho smesso. Non per indifferenza, ma per quella stanchezza che ti prende quando capisci che il mondo finge di ascoltare ma non ha mai davvero voluto risolvere nulla. Eppure, mentre i mesi scorrono e le notizie rimbalzano sempre identiche, una cosa è diventata impossibile ignorare: la volontà politica globale di chiudere questa ferita non esiste più.


La questione israelo-palestinese è arrivata a un punto in cui la retorica ha superato la realtà. Si celebrano le risoluzioni, si sventolano i comunicati, si ripete la frase “due popoli, due Stati”, ma le parole affondano nel loro stesso vuoto. Le ultime dichiarazioni dei leader israeliani non lasciano spazio all’immaginazione: il ministro degli Esteri Gideon Saar ha affermato senza esitazioni che “non ci sarà uno Stato palestinese”. Poco dopo Benjamin Netanyahu, parlando a Ma’ale Adumim, ha ribadito la stessa linea, svuotando ogni processo negoziale della sua pretesa dignità. Non c’è più nemmeno il tentativo di indorare la pillola, non c’è un gioco di ambiguità diplomatica: c’è un no secco, definitivo, una porta chiusa con un rumore che rimbomba in tutte le cancellerie del mondo. E ciò che lascia più inquieti non è la frase in sé, ma l’assenza di conseguenze internazionali. Ogni Stato esprime “preoccupazione”, qualcuno si avventura in un “invito al dialogo”, poi cala il silenzio. Una passerella stanca, un balletto di frasi fatte, un copione ripetuto da decenni.


Intanto, sul terreno, la vita dei palestinesi continua a essere un esercizio di sopravvivenza. OCHA, l’agenzia ONU che monitora la situazione, ha registrato negli ultimi due anni un aumento record di demolizioni, sgomberi, arresti e aggressioni dei coloni nelle zone della Cisgiordania. A Gaza, le ferite sono così profonde che non si ha più nemmeno la forza di elencarle; si assomigliano tutte, come se il dolore avesse iniziato a ripetersi per eccesso di abitudine. Amnesty International parla da tempo di un sistema di apartheid. Israele nega. Il mondo osserva, annota, archivia. Tutti fanno il loro dovere amministrativo, tranne quello che conta davvero: cambiare le cose. La diplomazia internazionale sembra impegnata a mantenere uno stato di equilibrio instabile, come se la tragedia fosse accettabile finché resta entro limiti prevedibili. Si tollera tutto finché non è abbastanza grande da diventare imbarazzante e non abbastanza piccolo da poter essere ignorato per sempre.


E mentre la questione israelo-palestinese torna ciclicamente nelle agende solo quando esplode l’ennesima crisi, gli anni scorrono e nulla cambia davvero. C’è una narrazione tossica che si ripete in loop: “Questa volta l’Occidente farà pressione”, “questa volta la comunità internazionale interverrà”, “questa volta i negoziati ripartiranno”. È un meccanismo perfetto per autoassolversi, ma non per risolvere. Il mondo non ha più la volontà politica, economica o strategica di imporre una soluzione. Le potenze regionali usano il conflitto come pedina, le potenze globali come argomento retorico, e i palestinesi restano nel mezzo, prigionieri di una geografia che non perdona e di una Storia che li dimentica a giorni alterni.

Il punto più tragico è che nessuno sembra più credere alla possibilità di uno Stato palestinese, a parte i comunicati formali dell’ONU, che continuano a votare quasi all’unanimità per una soluzione che tutti sanno irrealizzabile nelle condizioni attuali. I coloni continuano a espandersi, i territori si frammentano, la Cisgiordania si spezza in isole scollegate, Gaza resta un luogo sospeso nel tempo e nello spazio. La distanza tra ciò che si dice e ciò che accade è diventata insostenibile. Nel mondo reale, quello lontano dalle sale conferenze, la possibilità di un futuro condiviso sembra dissolta. E se c’è una verità che emerge con chiarezza è proprio questa: non siamo più davanti a un conflitto da risolvere, ma a un conflitto che si è fossilizzato. Nessuno lo vuole affrontare davvero, nessuno lo vuole chiudere davvero, nessuno vuole prendersi la responsabilità di definire quel futuro che i leader israeliani rifiutano apertamente e che i palestinesi non riescono più a immaginare.

Forse è proprio per questo che avevo smesso di scriverne. Perché diventa difficile trovare parole quando il mondo non ha più niente da dire. Ma allo stesso tempo, proprio questo silenzio impone di tornarci sopra. La questione israelo-palestinese non è un capitolo chiuso, non è una tragedia passata, non è un argomento per nostalgici della geopolitica. È una frattura viva che continuerà a sanguinare finché non ci sarà una volontà politica globale di affrontarla. E quella volontà, per ora, non esiste. È una verità amara, scomoda, ma finalmente onesta. Ed è forse l’unico punto da cui si può ricominciare a parlare di Palestina senza ipocrisia, senza teatrini, senza l’illusione che basti una conferenza internazionale a rimettere insieme ciò che da decenni si continua a frantumare.

✍️ Testo e analisi di Max Ramponi

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