Zelensky e la geometria dell’abbandono: manuale d’uso dell’impero quando finisce la pazienza
- Max RAMPONI

- 30 nov
- Tempo di lettura: 3 min

Zelensky ha capito la verità prima che gliela dicessero. È una verità sorda, che non ha bisogno di comunicati e non usa mai parole dirette. Arriva da come ti guardano, da quanto ritardo c’è nelle risposte, da quei piani di pace che ti vengono serviti già cotti, già freddi, già decisi altrove. Negli Stati Uniti qualcuno ha concluso che l’Ucraina ha già reso ciò che poteva rendere. Il resto è rumore, calcoli, geometrie.
A Washington hanno scritto un piano di pace prima di consultare Kiev, e la cosa dice più di qualsiasi analisi. Ventotto punti all’inizio, poi ridotti a diciannove per non sembrare una resa integrale: ma l’anima non cambia. Una guerra che si vuole chiudere per ragioni americane, non ucraine. Una bozza che pretende di congelare il conflitto e congelare l’Ucraina con esso. Una formula degna dei vecchi equilibrismi della Guerra Fredda, con l’unica differenza che oggi nessuno ha più interesse a fingere nobiltà.
La crisi interna ucraina è arrivata con l’esattezza di una mazzetta data sul momento giusto. Yermak, l’uomo che teneva in mano i fili più delicati, costretto alle dimissioni per un’inchiesta che sarebbe esplosa comunque, ma che esplode proprio ora. Zelensky vola tra Ginevra e Washington con la sensazione precisa di essere arrivato tardi sul suo stesso dossier. Attorno a lui, negli Stati Uniti, gli inviati che contano parlano poco e promettono ancora meno. Il principio è semplice: chi vuole sopravvivere alla politica americana deve produrre risultati, non fedeltà.
In questa dinamica c’è qualcosa di noto, quasi familiare. Gli americani funzionano così: un alleato vale finché vale l’obiettivo che lo giustifica. Poi scivola verso il margine. Non serve indignarsi, basta ricordare. Noriega quando non servì più; Saddam quando aveva adempiuto alla sua utilità contro l’Iran; bin Laden quando il grande gioco antisovietico era finito; Diệm quando il Vietnam del Sud non era più modellabile; Mobutu quando puzzava troppo di passato; lo Scià quando la piazza fu più rumorosa della diplomazia; Karzai e Ghani quando Kabul non era più un asset ma un peso morto. È un pattern, non un incidente. Un ciclo di vita: si prende, si usa, si scarica.
Zelensky è dentro questo ciclo e vede le crepe aprirsi una dopo l’altra. Non per colpa, non per debolezza, ma perché ogni guerra ha una data di scadenza nei piani di chi la finanzia, non in quelli di chi la subisce. E ora che il tempo americano stringe, l’Ucraina rischia di essere la moneta con cui si compra la quiete di qualcun altro. Mosca annusa l’aria come un animale che riconosce il momento. L’Europa fa il solito numero: osserva tesa, parla basso, spera che qualcuno risolva. Washington calibra, sottrae, adatta il proprio disegno.
Il vero problema non è il piano di pace, né le condizioni, né la diplomazia imbellettata. Il problema è la logica: un Paese che ha combattuto per sopravvivere ora si ritrova incastrato tra due potenze che trattano il suo futuro come una clausola negoziale. In questo disegno, Zelensky non è più il simbolo della resistenza, ma un residuo di una stagione che l’Occidente sta cercando di archiviare prima possibile. Il gioco è andato avanti finché serviva la morale. Ora serve l’accordo.
E quando l’accordo diventa la priorità, la morale muore senza nemmeno fare rumore. È sempre stato così. L’impero non ti avvisa: ti considera chiuso quando ha finito di leggerti.E Zelensky è arrivato proprio lì, nella zona grigia in cui non sei più il protagonista, ma non sei ancora l’intralcio.
La storia insegna che questa è la fase più pericolosa.







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