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Salvini e l’arte di cambiare argomento: manuale di fuga per ministri senza risultati

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 30 nov
  • Tempo di lettura: 3 min

MATTEO SALVINI

C’è una regola non scritta nella politica italiana: quando non hai risultati da mostrare, devi inventarti un nemico. Se poi riesci a trasformare un fatto marginale in una tempesta perfetta, meglio ancora. Salvini questa regola la conosce a memoria, e la applica con la costanza di un impiegato che timbra il cartellino. È ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma passa le giornate a parlare di tutto tranne che di infrastrutture e trasporti. Forse perché, a guardarli bene, non ci sarebbe molto da dire a suo favore.


La scena è sempre la stessa: mentre l’Italia cade letteralmente a pezzi tra linee ferroviarie obsolete, cantieri infiniti, ritardi cronici, tratte regionali che sembrano uscite da una cartolina degli anni ’70 e pendolari che conoscono più i binari che i propri figli, Salvini sceglie accuratamente di parlare d’altro. Un “altro” qualsiasi, purché diventi un polverone mediatico. Una famiglia che vive nei boschi, un giudice che applica la legge, una polemica costruita dal nulla: basta trovare un pretesto, sollevare la voce, fare due dirette e tre tweet, e il gioco è fatto. La stampa commenterà, i talk show ripeteranno, metà Italia si indignerà, l’altra metà ci riderà su; nel frattempo, nessuno chiederà più perché i treni non arrivano in orario o perché i pendolari pagano abbonamenti da paese civile per servizi da Paese immaginario.


È una tattica vecchia quanto la Repubblica: sposta la luce del riflettore e nessuno vedrà la polvere sotto il tappeto. Salvini ne ha fatto un mestiere. Perché se davvero si parlasse del suo operato al MIT, bisognerebbe ricordare che negli ultimi anni non c’è una sola riforma strutturale compiuta, non c’è un piano nazionale che funzioni, non c’è un salto di qualità percepibile in nessun settore sotto la sua responsabilità. I treni sono gli stessi di prima, le strade pure; i porti arrancano, gli aeroporti sopravvivono a forza di personale precarizzato, e le principali opere infrastrutturali italiane avanzano con la velocità di un’operaio che ha perso la voglia.

E allora perché non parlare continuamente di giudici? Perché non trasformare ogni caso marginale in una crociata? Perché non evocare ogni giorno un nuovo fronte morale? È semplice: se si parlasse del suo ministero, bisognerebbe affrontare numeri, obiettivi, bilanci, ritardi, responsabilità, fallimenti. Molto meglio discutere di famiglie nei boschi, di complotti, di presunti soprusi, di indignazioni prêt-à-porter. Tanto gli italiani amano la narrativa, e Salvini è un narratore consumato.


La verità è che un ministro che funziona non ha bisogno di inventarsi nemici. I risultati parlano da soli. Ma quando i risultati non ci sono, allora bisogna costruire una scenografia. Una storia che emoziona, distrae, divide. Salvini ha scelto questo: trasformare la quotidianità in una soap opera permanente, nella quale lui interpreta il ruolo del protettore del popolo mentre il popolo aspetta ancora un treno che arrivi in orario.


Ed è qui che arriva il dettaglio più amaro, quello che nessuno dice mai ad alta voce: per molti questa figura è “il Capitano”. Un soprannome ridicolo, quasi infantile, dato da un’Italia che non riesce più a prendere sul serio nemmeno se stessa. Capitano di cosa, poi? Di un’Italietta che galleggia a malapena, che si trascina fuori tempo massimo, che si emoziona per le polemiche perché non è più capace di pretendere competenza. Un Paese che si accontenta del rumore quando dovrebbe chiedere risultati. Un Paese che confonde l’audience con la leadership. Un Paese alla deriva, e non da ieri. Alla deriva di sé stessa.


E lui, il “Capitano”, non guida: si fa guidare dal vento del trend topic. La bussola non indica il Nord, indica l’algoritmo. Ogni volta che c’è da affrontare un dossier vero, si gira dall’altra parte, inventa un nuovo allarme, costruisce un altro teatrino. Non servirà a sistemare i treni, i porti, le strade, le infrastrutture logorate da decenni. Ma servirà a evitare la domanda che lo terrorizza davvero: che cosa hai fatto, concretamente, nel ruolo che ricopri? La risposta è una sola. E il silenzio che segue vale più di qualsiasi polemica costruita.


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