Salvini e i treni in ritardo: quando il ministro scarica la colpa su morti e cinghiali
- Max RAMPONI

- 24 ore fa
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Ormai Matteo Salvini è diventato un personaggio quasi mitologico. Non nel senso nobile del termine, non come archetipo eroico o figura tragica, ma come quelle divinità minori che popolano i miti antichi: rumorose, invadenti, onnipresenti, capaci di intervenire su qualsiasi cosa anche quando nessuno le ha invocate. È per questo che torna spesso nelle pagine di questo blog. Non per stima, che sarebbe fuori luogo. Non per ossessione, che sarebbe ingenerosa. Ma per una ragione molto più semplice e, se vogliamo, più letteraria: Salvini è diventato materiale grezzo, materia prima, una fonte inesauribile di narrazione involontaria. Scrivere di lui non è una scelta ideologica, è quasi un dovere antropologico.
È come studiare un fenomeno naturale che continua a ripetersi con ostinazione, ignorando qualsiasi legge fisica, logica o di buon senso. Salvini parla, e mentre parla produce testi, immagini, metafore, scivoloni, cortocircuiti. Non serve interpretarlo, basta trascriverlo. È lui stesso a scriversi addosso. In questo senso è un autore prolifico, anche se inconsapevole. Un autore che pubblica continuamente, senza revisione, senza editor, senza il fastidio del dubbio. Ed è forse questo il tratto che lo rende così interessante: la naturalezza con cui riesce a dire cose enormi come se fossero piccole, e cose piccole come se fossero epocali. Salvini non comunica, emette. Non argomenta, afferma. Non governa un discorso, lo attraversa lasciando dietro di sé una scia di frasi che sembrano pensate per essere analizzate a posteriori, come reperti.
È diventato frequente in questo blog perché incarna perfettamente una figura nuova della politica italiana: il ministro come personaggio seriale, il decisore come intrattenitore permanente, il responsabile come spettatore privilegiato di ciò che dovrebbe gestire. Salvini è il politico che racconta il mondo come se non ne facesse parte. Se qualcosa funziona, è una conferma del suo intuito. Se qualcosa non funziona, è un evento esterno, una fatalità, una sfortuna cosmica. In questa narrazione, lui è sempre al centro e sempre un passo di lato rispetto alle responsabilità. È l’uomo che “prende il treno”, che “gira per l’Italia”, che “parla con la gente”, come se tutto questo lo collocasse automaticamente al di sopra delle conseguenze.
Il fatto che sia ministro dei Trasporti diventa quasi un dettaglio biografico, non un ruolo. Ed è qui che il personaggio diventa interessante, quasi mitologico appunto: Salvini non è più solo Salvini. È una funzione narrativa. È la personificazione di una politica che ha smesso di distinguere tra esperienza personale e gestione pubblica, tra percezione soggettiva e realtà oggettiva. Quando parla, non sembra mai farlo da ministro, ma da cronista di se stesso. Ed è esattamente questo che lo rende così spesso irresistibile per chi scrive. Perché ogni sua uscita contiene già in sé il germe del paradosso. Ogni spiegazione sembra costruita per evitare la spiegazione vera. Ogni frase è una scorciatoia che porta altrove. Salvini non va cercato, arriva. Non va provocato, si autoalimenta. È diventato, suo malgrado, una sorta di personaggio ricorrente di questo blog perché rappresenta meglio di chiunque altro una fase precisa della politica italiana: quella in cui il potere non si giustifica più con i risultati, ma con la narrazione di sé. E quando questa narrazione inciampa, non resta che prenderne atto e raccontarla.
Non per accanimento, ma per igiene mentale. Perché ignorarlo significherebbe fingere che certe frasi non siano state pronunciate, che certi ruoli non siano ricoperti, che certi livelli di superficialità non siano diventati normalità. Salvini non è il problema in sé. È il sintomo. Ed è per questo che, piaccia o no, continua a tornare. È in questo contesto che arriva l’ennesimo episodio degno di nota, non perché sorprendente, ma perché perfettamente coerente con il personaggio.
Durante la presentazione del nuovo Piano Strategico di Ferrovie dello Stato, Matteo Salvini decide di spiegare al Paese perché i treni arrivano in ritardo. Non lo fa parlando di infrastrutture, di manutenzione, di investimenti, di organizzazione del servizio, di responsabilità politiche. Lo fa parlando di suicidi e di cinghiali. Il passaggio è netto, privo di esitazioni, quasi naturale. I ritardi, spiega, non dipendono solo dai cantieri, ma dal “fattore umano”, perché “purtroppo ci sono ancora troppe persone che si tolgono la vita”, e questo “incide sul computo dei ritardi”. Subito dopo, come se stesse completando un elenco di imprevisti meteorologici, aggiunge che il giorno prima è stato investito un cinghiale e che di questo dovrà parlare con il ministro Lollobrigida.
La frase non è scivolata, non è uscita male, non è stata corretta. È stata pronunciata così, in sequenza, con la stessa dignità argomentativa con cui si parlerebbe di un guasto tecnico. Ed è qui che il personaggio smette definitivamente di essere politico e diventa figura narrativa. Perché solo in un racconto surreale può accadere che un ministro dei Trasporti individui nei morti e negli animali selvatici le cause strutturali dei disservizi ferroviari. La tragedia privata di chi si suicida viene trasformata in variabile statistica. Il dolore diventa un intralcio. Il corpo sui binari diventa una voce negativa nella tabella della puntualità. Non c’è empatia, non c’è pudore, non c’è nemmeno la consapevolezza di star parlando di esseri umani.
C’è solo un problema da spiegare e una colpa da spostare altrove. È una forma raffinata di deresponsabilizzazione, quasi elegante nella sua brutalità. Perché attribuire i ritardi a cantieri infiniti, scelte sbagliate, fondi mal spesi, significherebbe ammettere un fallimento politico. Attribuirli ai suicidi e ai cinghiali, invece, significa chiamare in causa eventi incontrollabili, fatalità, elementi che non possono protestare né votare. È una strategia comunicativa perfetta per chi governa senza voler governare davvero. Salvini, in quel momento, non parla da ministro, ma da utente “fortunato”. Dice di prendere il treno, rivendica percentuali di puntualità come se fossero successi personali, come se il fatto di rientrare nel 90% dei regionali in orario fosse una medaglia al valore. Il problema non è nemmeno la leggerezza della frase, ma l’idea che la funzione pubblica sia riducibile a esperienza individuale. Io prendo il treno, quindi il sistema funziona. Io sono puntuale, quindi il problema è marginale. Chi resta indietro, chi subisce disservizi quotidiani, chi vive la precarietà del trasporto regionale, diventa rumore di fondo.
E dentro questo rumore finiscono anche i morti. Usati, citati, archiviati. Non come tragedie da interrogare, ma come scuse da spendere. Il riferimento al cinghiale completa il quadro con una nota quasi farsesca. Perché introduce l’idea che il malfunzionamento di un sistema complesso possa essere affrontato con una telefonata a un altro ministro. Come se bastasse spostare il problema di dicastero per risolverlo. O, più semplicemente, per non parlarne più. La politica, in questa rappresentazione, non è gestione, è rimpallo. Non è soluzione, è narrazione continua. Salvini non sta spiegando perché i treni arrivano in ritardo. Sta spiegando perché lui non c’entra. Ed è questa la costante del personaggio. Ogni volta che prende parola, costruisce un racconto in cui il potere è sempre un po’ altrove, un po’ fuori campo. Lui osserva, commenta, annota. Raramente assume. È il ministro come spettatore, il decisore come cronista. E il fatto che tutto questo avvenga senza scandalo, senza una reazione immediata, senza un imbarazzo collettivo, dice molto più del singolo episodio. Dice che il discorso pubblico si è abbassato al punto da accettare qualsiasi spiegazione purché pronunciata con sicurezza. Dice che la soglia dell’assurdo si è spostata in avanti.
Oggi un ministro può usare i suicidi come alibi gestionale e il dibattito si concentra sulla polemica, non sul significato profondo di quelle parole. E il significato è semplice e inquietante: la vita umana vale solo finché non intralcia. Quando intralcia, diventa problema tecnico. In questo senso Salvini non è un’eccezione, ma una sintesi. Una sintesi brutale di una politica che ha smesso di distinguere tra responsabilità e racconto, tra ruolo e personaggio, tra governo e comunicazione. Continuare a scriverne non è accanimento. È prendere atto che, finché questo linguaggio resta accettabile, i treni possono anche continuare ad arrivare in ritardo. Il problema, ormai, viaggia su un altro binario.







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