Bestiario: Salvini torna sul podio grazie all’esame di integrazione
- Max RAMPONI

- 6 giorni fa
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Matteo Salvini sta diventando, suo malgrado, il re assoluto della mia rubrica Il Bestiario. Non perché io abbia una fissazione particolare per lui, ma perché ogni sua uscita pubblica sembra progettata apposta per chiedere un capitolo dedicato. Ogni settimana sforna materiale fresco, involontariamente perfetto per salire sul podio delle “specie politiche da osservare con cautela”. Il punto, però, è che non posso trasformare il mio sito in un monologo su Salvini: diventerebbe un blog monotematico, e Il Bestiario perderebbe la sua natura zoologica. Eppure l’uomo ci prova con costanza: poco fa ho pubblicato un altro articolo su di lui, e oggi è riuscito nuovamente a superarsi con la storia dell’esame di integrazione per gli stranieri, l’ennesima trovata che non brilla per pertinenza al suo ministero. È un talento naturale, davvero: ti distrai un momento e lui è già lì, pronto a offrirti una nuova “perla” che reclama una risposta. Ma proviamo a restare lucidi, almeno per sport: perché dietro alla comicità involontaria delle sue uscite c’è un problema più serio, e cioè che un ministro delle Infrastrutture continua a occuparsi di tutto tranne che di infrastrutture.
In questi giorni è arrivata l’ennesima sparata di Matteo Salvini: l’idea di introdurre un “esame di integrazione” per i cittadini stranieri. Un’altra trovata che c’entra con il Ministero delle Infrastrutture quanto una tromba marina con un garage condominiale. Salvini continua a occuparsi di tutto, tranne che del suo ministero. E mentre il Paese aspetta cantieri veri, opere approvate, procedure solide e un ponte che sia qualcosa in più di un disegno pubblicitario, lui decide che la priorità sia testare la “italianità” degli altri. È affascinante, in un certo senso: un ministro che non supera l’esame delle proprie competenze propone un esame agli altri.
E poi c’è quella parola, “integrazione”, che continua a essere trattata come se fosse un concetto nobile, quando invece porta con sé una sfumatura stantia, quasi coloniale. Sembra quasi un invito a cancellarsi, a limarsi gli angoli, a diventare più digeribili per chi ti ospita. Non indica convivenza, partecipazione, contaminazione culturale: indica conformità. Indica l’idea che per essere accettato devi addomesticarti. Una parola che pretende che tu faccia un passo indietro nella tua identità per fare un passo avanti nella società che ti osserva. Una parola che presenta un sorriso di facciata, ma chiede un prezzo altissimo: somigliarci, o almeno provarci.
Il paradosso vero, però, è un altro. Salvini – che dovrebbe occuparsi di infrastrutture, trasporti, mobilità, opere pubbliche – continua a spostare il dibattito nazionale su tutto ciò che non rientra nella sua responsabilità diretta. Mentre il Ponte sullo Stretto langue tra bocciature della Corte dei Conti, lacune tecniche e annunci che evaporano, la risposta ministeriale non è accelerare i progetti, non è sistemare ciò che crolla, non è far partire ciò che è fermo: è introdurre un esame ideologico per chi viene da fuori. Una distrazione, l’ennesima, perfettamente calibrata per far parlare d’altro e non dei risultati mancanti. Nel bilancio del ministero pesano i cantieri che non partono, non i cittadini stranieri che dovrebbero imparare a memoria l’inno di Mameli.
Eppure sarebbe interessante ribaltare la prospettiva. Prima di chiedere agli altri di superare un esame di integrazione, non sarebbe opportuno che un ministro superasse un esame di coerenza con il proprio incarico? Perché un cittadino straniero deve dimostrare di conoscere un Paese in cui vuole vivere, mentre un ministro non è tenuto a dimostrare di conoscere il ministero che guida? Chiediamo agli stranieri di studiare cultura, diritti, doveri, storia nazionale; ma nessuno chiede a chi governa strade, ferrovie e porti di dimostrare competenza, continuità, capacità di portare a termine un progetto. E allora l’esame più utile non sarebbe quello imposto agli altri, ma quello imposto alla politica stessa: una prova semplice, basata su fatti concreti, non su slogan.
La verità è che “integrazione” è diventata una parola-scudo: serve a spostare l’attenzione quando la realtà amministrativa scricchiola. Serve a dare l’idea di una battaglia culturale mentre le infrastrutture restano ferme. Serve a costruire un’identità politica quando mancano risultati tangibili. In un Paese dove la manutenzione è un lusso, i treni arrancano, le opere si perdono nei procedimenti, sentir parlare di esami da imporre agli stranieri suona come un diversivo. Un diversivo goffo, se vogliamo, ma efficace nel trasformare un ministero tecnico in un perenne palcoscenico ideologico.
Alla fine, il punto è semplice: l’ennesima sparata di Salvini dice molto meno sugli stranieri e molto di più su chi la propone. Non è un test per chi arriva, è un test mancato per chi governa. E se proprio si vuole introdurre un esame, che sia reciproco: chi vuole vivere in Italia studi pure l’Italia; ma chi vuole amministrarla dovrebbe almeno dimostrare di saperla costruire.







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