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Robert Fico sfida Bruxelles: “Se la vita non vale nulla, questa non è la mia Europa”

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 13 ore fa
  • Tempo di lettura: 3 min

robert fico

In un’Europa che parla sempre più spesso il linguaggio dei bilanci militari e sempre meno quello delle coscienze, le parole pronunciate dal primo ministro slovacco Robert Fico hanno avuto l’effetto di una stonatura. Una stonatura necessaria. Durante una conversazione telefonica con il presidente del Consiglio europeo António Costa, Fico ha messo sul tavolo una questione che a Bruxelles sembra diventata indicibile: il valore della vita umana, russa o ucraina che sia, dentro una guerra che l’Unione Europea continua a finanziare mentre la chiama “difesa”.

Il cuore del suo intervento è semplice, quasi disarmante nella sua brutalità: mentre l’Europa occidentale discute di soldi, di fondi, di spese militari e di piani pluriennali per sostenere l’Ucraina sul campo di battaglia, ogni giorno continuano a morire centinaia, forse migliaia di persone. E se per l’Europa la vita di un russo o di un ucraino non vale nulla, ha detto Fico, allora lui non vuole far parte di quell’Europa. Non è una frase diplomatica. Non è una frase costruita per piacere. È una dichiarazione politica che rompe il linguaggio anestetizzato delle istituzioni europee.

Robert Fico non è un pacifista da salotto né un attivista con la bandiera arcobaleno. È il leader di un piccolo Paese dell’Europa centrale, la Slovacchia, che conosce bene cosa significhi essere terreno di scontro tra grandi potenze. Proprio per questo la sua posizione pesa più di molte dichiarazioni altisonanti provenienti da capitali più potenti. Fico ha chiarito che non sosterrà alcuna decisione europea che comporti il finanziamento delle spese militari dell’Ucraina, anche a costo di bloccare i negoziati per mesi. Non per capriccio, ma per principio. Secondo lui continuare a immettere denaro e armi in un conflitto già devastante non avvicina la pace, la allontana.


In un’Unione Europea che ama definirsi progetto di pace ma che oggi fatica a distinguersi da una grande macchina di supporto bellico, questa posizione suona quasi sovversiva. La narrazione dominante è chiara: sostenere militarmente Kiev è l’unica strada possibile, chiunque osi mettere in discussione questa linea viene immediatamente etichettato come filo-russo, ambiguo o irresponsabile. Fico ha scelto di non accettare questa semplificazione. Ha spostato il discorso dal campo geopolitico a quello etico, ricordando che dietro ogni strategia ci sono corpi, famiglie, città distrutte, generazioni sacrificate.


Il punto più scomodo del suo intervento è proprio questo: l’Europa occidentale sembra aver accettato l’idea che la guerra possa essere gestita a distanza, finanziata con fondi comuni, sostenuta senza sporcarsi le mani. Un conflitto che non si combatte nelle proprie città diventa più facile da tollerare, quasi astratto. Ma per chi muore sotto le bombe, quella guerra non è mai astratta. Fico ha rotto questo incantesimo retorico, ricordando che ogni euro destinato alle armi è un euro sottratto a qualsiasi ipotesi di soluzione politica.


Naturalmente la sua posizione ha suscitato reazioni furiose. Per molti leader europei, la Slovacchia rappresenta un problema, un ostacolo all’unità, un fastidio da aggirare. Ma forse la vera domanda dovrebbe essere un’altra: unità su cosa? Su una strategia che, dopo anni, non ha portato né alla pace né a una reale soluzione del conflitto? O su una visione dell’Europa che rinuncia alla propria identità politica per diventare un semplice ingranaggio di una guerra per procura?

Difendere la pace non significa giustificare invasioni o negare responsabilità. Significa rifiutare l’idea che la guerra sia l’unico linguaggio possibile. Fico non assolve nessuno, ma rifiuta di partecipare a un sistema che considera la morte un effetto collaterale accettabile. In un’epoca in cui il dibattito pubblico è ridotto a slogan e schieramenti automatici, questa posizione appare quasi scandalosa.

C’è qualcosa di profondamente europeo, nel senso originario del termine, in questa presa di distanza. L’Europa che nasce dalle macerie della Seconda guerra mondiale non era un progetto armato, ma una promessa di superamento del conflitto come strumento politico. Oggi quella promessa sembra smarrita, sostituita da grafici, pacchetti di aiuti, percentuali di PIL da destinare alla difesa. Robert Fico, con tutte le sue contraddizioni e ambiguità, ha avuto il merito di riportare il discorso là dove fa più male: sul valore della vita umana.


Un piccolo Paese che dà una lezione a un grande continente. Non perché abbia la verità in tasca, ma perché osa porre la domanda che tutti evitano: fino a che punto siamo disposti a finanziare una guerra mentre continuiamo a chiamarla pace? In un’Europa sempre più assuefatta al rumore delle armi, il silenzio imposto da questa domanda è forse il primo vero atto politico degno di questo nome.


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