La questione palestinese come specchio della politica italiana: tra romanticismo militante e propaganda identitaria
- Max RAMPONI

- 2 dic
- Tempo di lettura: 3 min

La questione palestinese, in Italia, non viene quasi mai affrontata per ciò che è: una tragedia umana che attraversa decenni di storia. Qui diventa un’arma politica, un pretesto, una bandiera. Un simbolo da “tirare fuori” quando serve rivendicare un’identità. Chi perde, come sempre, sono i palestinesi stessi, trasformati in sagome utili alla narrazione del giorno.
Negli ultimi anni, lo si è visto con chiarezza: grandi manifestazioni pro-Palestina in città come Roma, Milano, Bologna, spesso organizzate da sigle sindacali radicali, movimenti studenteschi, collettivi universitari e centri sociali. In molte occasioni la protesta è degenerata in disordini, lanci di oggetti, cariche, vetrine sfondate, blocchi di stazioni e aeroporti, occupazioni di università e musei. Non è fantasia: è cronaca. E in tutti questi episodi la causa palestinese diventa un mantello simbolico sotto il quale far passare qualsiasi tipo di ribellione interna. La questione israelo-palestinese diventa il combustibile perfetto per riaccendere dinamiche di antagonismo urbano che in Italia covano da decenni. Non interessa più capire la Palestina: interessa performare la Palestina, trasformarla in un atto di militanza identitaria.
Sul versante opposto, la destra italiana reagisce con la stessa intensità ma in senso speculare. Per molti esponenti della destra — da Fratelli d’Italia alla Lega fino a una parte di Forza Italia — la Palestina non esiste come popolo, come questione storica o come tragedia. Esiste solo Israele. Schierarsi con Israele è la linea ufficiale, dichiarata e ripetuta con orgoglio: “senza ambiguità”, come recitano spesso i comunicati del centrodestra.
Ma perché questa posizione così monolitica? Non è una risposta emotiva, è una scelta politica precisa che poggia su tre pilastri. Il primo è ideologico: la destra italiana considera Israele parte del fronte occidentale, un avamposto dell’Occidente democratico in Medio Oriente. In questa visione, sostenere Israele significa sostenere la “civiltà occidentale” contro ciò che viene percepito come instabilità, fondamentalismo, minaccia terroristica. I palestinesi, in questo racconto, diventano un indistinto “altro” associato a gruppi estremisti e a narrative antagoniste verso l’Europa.
Il secondo pilastro è geopolitico: la destra italiana, soprattutto dopo il 7 ottobre, ha rafforzato il legame con Stati Uniti e Israele. Schierarsi equivale a posizionarsi in una rete di alleanze dove la sicurezza ha la precedenza sulla diplomazia. In questa logica, riconoscere la sofferenza palestinese significherebbe — secondo loro — “indebolire” un alleato strategico. A livello comunicativo, diventa più efficace presentare Israele come “isola di stabilità” e i palestinesi come potenziale minaccia.
Il terzo pilastro è elettorale: una parte consistente dell’elettorato di destra vive la questione identitaria in maniera radicale. Per loro mostrare empatia verso i palestinesi non è un segno di umanità, ma un cedimento. E chiunque sostenga la causa palestinese viene subito etichettato come “propal”, “antioccidentale”, “zecca sinistroide”, indipendentemente dalle sue motivazioni. È un meccanismo che serve a compattare l’elettorato attorno a un nemico simbolico.
Il risultato è che anche la destra, come la sinistra radicale, finisce per non vedere più i palestinesi. Per gli uni sono eroi romantici; per gli altri una minaccia indistinta. Nessuno si prende il disturbo di considerarli come esseri umani travolti da una storia complicata, con responsabilità diffuse e sofferenze che non rientrano bene negli slogan.
Questa dinamica la si vede chiarissima nei talk show italiani. Gli esponenti della sinistra usano la Palestina per rivendicare la loro identità morale, i movimenti più radicali la trasformano in un rito di purificazione politica, e gli ospiti di destra rispondono accusando chiunque simpatizzi per i palestinesi di sostenere il terrorismo. I volti delle vittime diventano materiale di contesa, non oggetto di riflessione. La sofferenza scompare dietro l’urgenza di posizionarsi.
La verità è che la politica italiana non parla mai della Palestina: parla di sé, dei propri spettri ideologici, dei propri limiti culturali, della propria necessità di trovarsi un ruolo in un mondo che forse non capisce più. E mentre qui ci scanniamo su chi “ha ragione”, i palestinesi continuano a vivere un dramma che non ha bisogno delle nostre bandiere, dei nostri cortei distruttivi o dei nostri slogan bellicosi.
Raccontare la Palestina senza filtri significa togliersi la presunzione di interpretarla. Significa ammettere che il conflitto non è un’indicazione di voto. Significa dire apertamente che nessuno in Italia — né i centri sociali né il governo — ha il diritto di trasformare un popolo martoriato in un attrezzo da palcoscenico elettorale. Tutto il resto è propaganda travestita da principî.







Commenti