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29 novembre: la giornata ONU per la Palestina

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 29 nov
  • Tempo di lettura: 2 min

PALESTINA

Il calendario dice “Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese”. La storia, però, ha un’altra opinione. Il 29 novembre non è solo un appuntamento rituale nella liturgia diplomatica delle Nazioni Unite: è la data esatta in cui la comunità internazionale ha deciso che la geografia del Medio Oriente potesse essere tagliata, riassemblata e consegnata a un conflitto permanente.


Tutto inizia nel 1947 con la Risoluzione 181, un capolavoro di ingegneria geopolitica creato a migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui avrebbe incendiato il secolo successivo. All’epoca gli arabi erano il 70% della popolazione e possedevano il 93% della terra. I numeri non impediscono all’ONU di assegnare oltre il 56% al nascente Stato ebraico. La matematica non è mai stata il punto forte dei diplomatici, soprattutto quando la posta in gioco non ricade sulle loro frontiere.

Gli Stati Uniti votano a favore, l’Unione Sovietica anche. Curioso come le potenze rivali trovino sempre un accordo quando il prezzo lo pagano altri. La Palestina non viene invitata alla festa, e del resto non avrebbe avuto molto da festeggiare.


Da lì in avanti, la Storia smette di essere un dibattito e diventa un elenco di conseguenze:


— scioperi, rivolte, tensione crescente;

— villaggi palestinesi attaccati da milizie sioniste;

— la guerra del 1948, la prima di una lunga serie;

725.000 persone costrette alla fuga;

— Israele che passa dal 56% attribuito al 77% effettivamente controllato;

— la Risoluzione 194 sul diritto al ritorno, rimasta nel limbo degli archivi.


E quando sembra abbastanza, arriva il 1967. Un’altra guerra lampo, un’altra mappa ridisegnata. Un’altra occupazione destinata a durare più dei mandati dei segretari generali dell’ONU che avrebbero dichiarato, uno dopo l’altro, “profonda preoccupazione”. La fotografia attuale è brutale.


  • Oltre 700.000 coloni negli insediamenti illegali.

  • 3372 attacchi dei coloni registrati dall’ONU nell’ultimo decennio.

  • Gaza sotto assedio dal 2007.

  • Un milione di persone in insicurezza alimentare già prima del 2023.


Il paradosso si chiama “solidarietà internazionale”. Ogni anno si celebra ciò che non si riesce a fermare. L’istituzione che avrebbe dovuto prevenire, mediare e garantire diritti si ritrova ridotta al ruolo di contabile: registra i danni, archivia le violazioni, pubblica rapporti impeccabili che nessuno ha intenzione di applicare.


Per 77 anni l’ONU ha osservato, documentato, misurato.E mentre misurava, la situazione peggiorava. La macchina diplomatica continua a produrre dichiarazioni con la stessa efficienza con cui la realtà produce nuovi sfollati. Non è questione di moralità, simpatia o bandiere: è una questione di risultati. E i risultati sono disastrosi. In un sistema internazionale davvero efficace, il 29 novembre sarebbe una data da evitare. Un imbarazzo, non un anniversario.Invece lo celebriamo.Forse perché ricordare costa meno che intervenire.


Mahmoud Darwish, che non aveva la diplomazia nel sangue ma la lucidità sì, scrisse:“Questa terra veniva chiamata Palestina. Verrà chiamata Palestina.”Una frase che non chiede compassione, solo memoria. Ed è esattamente ciò che questo giorno dovrebbe essere:non una celebrazione, ma un promemoria delle scelte che ci hanno portati fin qui.

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