E se la famiglia del bosco fosse stata musulmana?
- Max RAMPONI

- 29 nov
- Tempo di lettura: 3 min

Nelle ultime settimane del 2025 l’Italia è stata letteralmente saturata dalla vicenda della cosiddetta “famiglia del bosco”, un caso che è rimbalzato ovunque come se fosse l’unica cosa accaduta nel Paese: telegiornali, talk show, dirette sbavate, politici in tournée permanente, hashtag prodotti in serie, indignazioni usa-e-getta e opinioni costruite in quattro secondi netti. Una coppia anglo-australiana vive con tre bambini in un casolare isolato e fatiscente nei boschi di Palmoli, senza elettricità, senza acqua, senza scuola, senza sicurezza. Un luogo che definire “casa” è già un atto di ottimismo. Quando i bambini finiscono in ospedale per una sospetta intossicazione da funghi, si attivano i servizi sociali e il Tribunale per i Minori decide l’allontanamento.
Da lì scoppia l’incendio mediatico: improvvisamente tutti diventano esperti di infanzia, di boschi, di libertà individuale e soprattutto di tribunali minorili. La politica si getta nel caso come avvoltoi sul cadavere tiepido: chi accusa lo Stato, chi invoca la famiglia sacra, chi si strappa i capelli davanti alle telecamere. E il pubblico, quello sempre pronto ad accendere un falò digitale, si divide in due curve: quelli che vedono un abuso, e quelli che vedono irresponsabilità travestita da poesia rurale. Fin qui, tutto regolare: l’Italia che conosciamo, quella che trasforma ogni notizia in un’arena.
Ma adesso bisogna fare la domanda che nessuno vuole sentire, perché fa saltare il tavolo, spacca l’immagine comoda, umilia le certezze: se quella stessa famiglia nel bosco non fosse stata composta da un inglese e un’australiana, ma da un uomo musulmano con barba lunga e tunica, da una donna con hijab e da una bambina velata, la reazione dell’Italia sarebbe stata la stessa? Davvero tutti questi paladini della libertà, tutti questi difensori improvvisati della famiglia naturale, tutti questi amanti del bosco selvatico si sarebbero mobilitati allo stesso modo? Davvero avremmo assistito a interviste commosse, politici in missione, influencer che piangono dietro un filtro Instagram? Oppure sarebbe comparso subito un altro tipo di pubblico, quello che sbava davanti ai video di ruspe, quello che applaude ai post del “capitano”, quello che ripete come un mantra la parola “espellere” senza sapere neanche da dove, quello che considera la povertà un problema solo quando ha la pelle chiara? Perché è facile immaginarlo: in un attimo il bosco non sarebbe più stato un luogo poetico, ma un potenziale “accampamento sospetto”. Il casolare non sarebbe diventato un simbolo di libertà, ma un “insediamento irregolare da monitorare”.
La famiglia non sarebbe stata descritta come alternativa, ma come “comunità chiusa”. I bambini non sarebbero stati visti come vittime, ma come soggetti a rischio “educativo e culturale”. E il pezzo di pubblico che oggi urla allo scandalo sarebbe stato il primo a chiamare “lui”, il santo patrono della ruspa, quello che in campagna elettorale si nutre di polvere e smottamenti: sarebbe arrivato in quel bosco non per difendere i genitori, ma per promettere che avrebbe abbattuto la casa il giorno dopo, “per la sicurezza di tutti”, con il sorriso compiaciuto di chi si sente liberatore mentre guida una macchina da demolizione. Il pubblico dei suoi adepti avrebbe applaudito, gridato “bravo”, condiviso video indignati, urlato contro la “pericolosa famiglia nel bosco musulmana” senza sapere nulla, senza chiedere nulla, senza immaginare per un secondo che i bambini non c’entrano niente con le fantasie identitarie di adulti in guerra permanente contro tutto ciò che non somiglia a loro.
Questo è il punto: l’Italia non reagisce alle storie, reagisce alle facce. Non difende i bambini: difende l’immagine che ha di sé. Se la famiglia ha tratti occidentali, diventa subito una favola, una lotta per la libertà, un dramma umano su cui fare audience. Se la famiglia ha tratti arabi, diventa una minaccia, un’anomalia, un corpo estraneo da “gestire”. Ed è proprio qui che la provocazione diventa necessaria: la vera differenza non l’ha fatta il bosco, né la casa, né l’isolamento, né i bambini. La differenza l’ha fatta la geografia dei volti. Se quella casa l’avessero abitata un uomo musulmano con barba e tunica e una donna con hijab, l’Italia non avrebbe visto una poesia sfiorita ma un allarme da neutralizzare. La ruspa — quella simbolica e quella reale — sarebbe stata la prima a entrare nel bosco. E la folla di seguaci in delirio avrebbe applaudito come fosse una liberazione. Questa non è opinione: è termometro sociale. È misurazione di un’ipocrisia enorme, che si crede moralità. È la radiografia di un Paese che difende la libertà solo quando ha gli occhi chiari.







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