Caso Open Arms: perché criticare Salvini e la Lega non è ideologia ma buon senso
- Max RAMPONI

- 5 giorni fa
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La Lega ha pubblicato l’ennesimo post indignato per difendere Matteo Salvini, raccontando che l’ex ministro rischierebbe una condanna “per aver difeso i confini”. Una frase che sembra eroica, patriottica, quasi cinematografica. Peccato che non abbia nulla a che fare con la realtà giuridica dei fatti. Ma la propaganda funziona così: non ha bisogno di essere vera, basta che suoni bene.
Il processo a Salvini non riguarda la difesa dei confini, riguarda il trattenimento illegittimo di persone a bordo di una nave. Non c’era un’invasione, non c’era un attacco armato, non c’era nessuna emergenza di sicurezza nazionale. C’erano naufraghi: persone recuperate in mare, molte delle quali vulnerabili. L’idea che bloccarli per giorni equivalga a “difendere l’Italia” è la prima trasformazione magica con cui il post della Lega prova a cambiare il racconto. Ma la legge non cambia con le parole: i naufraghi sono tali, e l’obbligo è portarli nel porto sicuro più vicino.
Il post della Lega continua sostenendo che la Open Arms “fece di tutto pur di venire in Italia”, come se la ONG avesse scavalcato tre continenti per realizzare un piano malefico. La realtà è meno eroica e molto più semplice: l’Italia era il porto sicuro più vicino. La Tunisia, secondo lo stesso governo italiano, non era considerata un porto sicuro. Malta rifiutava spesso lo sbarco o indicava porti non immediatamente disponibili. La Spagna, invece, era semplicemente troppo distante per essere un’opzione concreta. Immaginare di riportare decine di naufraghi fino a Barcellona è il tipo di richiesta che si fa solo quando il proprio obiettivo non è salvare vite, ma vincere una battaglia comunicativa.
La Lega prova poi a spostare la responsabilità: la colpa dell’attesa “folle ed estenuante” sarebbe della ONG. Non importa che fosse il ministro dell’Interno a bloccare lo sbarco, non importa che a bordo ci fossero minori e persone in difficoltà. Anche qui, la propaganda gioca la sua carta più amata: cancellare il ruolo delle istituzioni e trasformare chi governa in vittima di chi soccorre.
E proprio sulla vittimizzazione si costruisce il finale melodrammatico del post: “Non c’è in gioco solo Salvini, ma il futuro dell’Italia.” È una frase che appartiene alla tradizione più antica dell’autodifesa politica: quando un leader non sa come giustificare le proprie scelte, si nasconde dietro l’idea che chi lo critica stia attaccando la nazione. Berlusconi lo faceva, Trump lo fa ogni giorno, e ora la Lega ripropone lo stesso schema: se processi lui, allora processi tutti noi. È il classico espediente del “salvate il soldato Matteo”.
Ed è qui che serve chiarezza:
criticare la Lega non significa essere di sinistra, di centro, o tifare per qualche bandiera politica. Significa usare il buonsenso. Significa rifiutare l’idea che slogan, farneticazioni e semplificazioni possano sostituire la realtà dei fatti. Mettere in discussione la propaganda non è una scelta ideologica: è un atto di igiene mentale.
La politica può permettersi le narrazioni, i cittadini no: a loro resta la responsabilità di distinguere tra ciò che accade e ciò che viene raccontato. Il vero problema, infatti, non è Salvini. Il vero problema è la narrazione che la Lega tenta di imporre: un mondo in cui diritto internazionale, convenzioni marittime e obblighi umanitari spariscono, sostituiti da una sceneggiatura in cui il capitano coraggioso difende la patria da una ONG malvagia. È un racconto efficace, certo. Ma la realtà è un’altra: quel che viene presentato come “difesa dei confini” è stato, nella sostanza, un atto politico compiuto sulla pelle di persone che non avevano alcun potere per difendersi. E prima o poi, anche la propaganda deve fare i conti con i fatti. Le frasi si possono sempre riscrivere. Le responsabilità, no.







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