25 novembre: tanta scena, pochi fatti
- Max RAMPONI

- 29 nov
- Tempo di lettura: 3 min

Stavo scrollando Facebook tanto per capire cosa avremmo dovuto ingoiare oggi e, puntuale come un orologio difettoso ma insistente, arriva la solita liturgia del 25 novembre trasformata in evento da vetrina. Ogni anno la stessa estetica dell’impegno usa-e-getta: post arancioni, slogan riciclati, indignazione da giornata mondiale, gente che si commuove un attimo e poi torna a vivere felice nell’amnesia dei restanti 364 giorni. Il problema non è la giornata: è ciò che la giornata è diventata. Un passaggio obbligato, un gesto di estetica civile che serve più alla coscienza di chi guarda che alla vita di chi subisce.
La violenza contro le donne è un fenomeno quotidiano, ma la narrazione collettiva lo affronta solo quando conviene: quando c’è la storia “giusta”, il volto telegenico, la tragedia perfetta per i talk show. Il 25 novembre, invece di spezzare questo meccanismo, finisce per irrigidirlo. Diventa il giorno in cui tutti possono scaricare la tensione morale senza assumersi alcun peso reale. Un rituale controllato. Una valvola di sfogo. Un palco per mostrarsi indignati il tempo necessario a collezionare like. Dopo di che, il nulla. Gli stessi politici che oggi twittano frasi da cerimonia sono gli stessi che non finanziano i centri antiviolenza e che brillano per assenza quando si tratta di strutture, fondi, personale, case rifugio, percorsi di autonomia, formazione nelle scuole. Le stesse amministrazioni che si fanno fotografare accanto alle panchine rosse sono quelle che non hanno un euro per proteggere chi chiede una via d’uscita.
Il 25 novembre diventa così una controfigura del problema: invece di illuminare la realtà la nasconde dietro una scenografia. Non è impegno: è manutenzione dell’immagine. La violenza non nasce quando un uomo uccide: nasce molto prima, nei comportamenti normalizzati, nelle frasi minimizzanti, nelle gelosie trattate come affetto, nella mancanza assoluta di educazione emotiva, nell’incapacità di riconoscere la fragilità maschile, nei tribunali lenti e impreparati, nelle forze dell’ordine che non sono formate, nei servizi sociali strozzati. Tutto questo non si risolve con un hashtag o con un colore. Il 25 novembre produce sempre lo stesso paradosso: più parole, meno fatti. Più rumore, meno decisione. Più emozione, meno struttura. È la logica del “marketing del dolore”: condividi, mostra, sentiti parte di qualcosa, poi archivia. Il problema vero è che fuori dalle campagne social la violenza continua, segue un suo calendario, non tiene conto delle giornate mondiali.
Le donne che vivono situazioni di rischio non festeggiano il 25 novembre: cercano di sopravvivere al 26, al 27, al 28 e così via. La domanda giusta non è “a cosa serve il 25 novembre?”. La domanda giusta è: “a chi serve il 25 novembre?”. Serve davvero alle vittime o serve a chi vuole sentirsi dalla parte giusta con il minimo sforzo? Il 25 novembre non va abolito: va ribaltato. Deve diventare il giorno in cui lo Stato presenta dati reali: quanti fondi sono stati erogati, quanti centri sono attivi, quante case rifugio esistono, quanti processi vengono accelerati, quante misure funzionano davvero. Deve essere una scadenza, non una celebrazione. Un giorno di contabilità, non di estetica. Oggi invece è uno specchio rovesciato: indignazione sopra, immobilità sotto. Una giornata fatta per emozionarsi, non per agire.
Finché continueremo a trattare la violenza come un evento da commemorare e non come un sistema da smontare, continueremo a fallire. Finché crediamo che un post equivalga a un progresso, continueremo a scambiare la consapevolezza con la soluzione. Il 25 novembre non deve servire a farci sentire migliori: deve servirci a capire quanto siamo lontani dal fare il necessario. Non deve essere un giorno che consola: deve essere un giorno che costa.







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