Natale non è in pericolo: lo è il buon senso
- Max RAMPONI

- 29 nov
- Tempo di lettura: 5 min

Stavo scrollando Facebook in cerca di qualcosa di sensato da commentare, uno di quei temi che realmente raccontano lo stato del Paese: una notizia di attualità, un fatto di cronaca, una decisione politica degna di essere discussa. Poi, puntuale come l’inverno e preciso come un orologio svizzero, è apparso nel feed il classico post populista sul Natale, quello che ciclicamente torna ogni anno con la stessa formula, gli stessi slogan, la stessa indignazione prefabbricata. Il copione è sempre identico: “Giù le mani dal Natale”, “Difendiamo le nostre tradizioni”, “L’identità italiana è sotto attacco”. Una litania ripetuta così tante volte che ormai sembra la sigla non ufficiale del mese di dicembre.
Il fatto scatenante, questa volta, arriva da Magliano in Toscana, dove una scuola primaria ha deciso di modificare il testo di “Jingle Bells” eliminando il riferimento a Gesù, nel tentativo — secondo la dirigente scolastica — di tutelare le diverse sensibilità presenti in classe. Una scelta nata probabilmente da un sincero, ma mal calibrato, desiderio di inclusione; un gesto che, in un ambiente educativo complesso e multiculturale, poteva essere affrontato con un semplice confronto interno. Invece è diventato in poche ore un caso politico, ideologico e mediatico, amplificato da chi ha interesse ad agitare ogni dicembre lo spettro dell’identità minacciata.
La reazione è stata immediata e sproporzionata: politici di ogni livello, esponenti di centrodestra, opinionisti e influencer hanno affollato le bacheche social denunciando l’ennesimo “attacco al Natale”, parlando di “censura”, “sradicamento culturale”, “auto-cancellazione”, come se un verso modificato in un canto di bambini potesse davvero mettere in discussione la tradizione cristiana o minare le fondamenta culturali di un intero Paese. Persino figure istituzionali hanno parlato di “scuola che rinnega se stessa”, come se un testo musicale riscritto fosse sufficiente a ribaltare secoli di storia.
E qui nasce la domanda concreta, non ideologica: come ci si sarebbe dovuti comportare in una scuola dove convivono identità diverse? Perché questo è il punto centrale, molto più rilevante del dibattito gonfiato dalle polemiche natalizie. In una scuola moderna, che rappresenta lo specchio di una società pluralista, la risposta corretta non è cancellare, ma contestualizzare. Non si elimina Gesù da un canto natalizio: si spiega ai bambini chi è Gesù nel contesto del Natale, perché questa festa nasce da quella figura storica e religiosa, e perché molte famiglie celebrano questa ricorrenza con significati differenti. Allo stesso tempo si dà spazio per raccontare altre tradizioni, altre feste, altre identità presenti nella classe. Si insegna che esiste Hanukkah, che esiste Diwali, che esiste Mawlid, e che conoscere queste ricorrenze non toglie valore al Natale, ma apre un orizzonte culturale più ampio.
La scuola ha un compito: educare alla realtà, non sterilizzarla. La laicità non significa nascondere tutto ciò che ha origini religiose, ma saper distinguere tra educazione e proselitismo. Raccontare il Natale non converte nessuno; anzi, è un atto di trasparenza culturale, un modo per comprendere le radici di una festa che permea la società italiana ben oltre l’aspetto spirituale. Non è necessario cancellare Gesù, così come non sarebbe necessario cancellare il Ramadan o altre ricorrenze per raccontarle: basta spiegare.
I bambini, a differenza degli adulti, sono naturalmente predisposti ad accettare le differenze senza trasformarle in contrapposizioni. Ci riescono perché non hanno la rigidità ideologica che invece caratterizza gli adulti, soprattutto quelli che si indignano attraverso la tastiera. Per loro, le tradizioni convivono spontaneamente. Sono gli adulti a proiettare ansie, paure e conflitti simbolici su una canzone di classe.
Detto ciò, comprendere le intenzioni della dirigente non significa doverle condividere. La scelta era evitabile perché, anziché includere, ha finito per sottrarre. E quando si sottrae qualcosa che appartiene alla cultura italiana, si genera inevitabilmente una reazione di rigetto — anche se quella reazione, in questo caso, è stata ingigantita ben oltre la portata del fatto.
Ma più del contenuto della decisione, ciò che colpisce è il fenomeno che ogni anno si ripete: basta un’impressione, un cambiamento simbolico, un dettaglio minore legato al Natale, e parte la campagna orchestrata contro la “cancel culture”, contro l’invasione culturale, contro la perdita delle tradizioni. È un rituale, non un dibattito. Ed è un rituale utile, soprattutto politicamente.
Da anni, infatti, parte della politica italiana usa il Natale come strumento di mobilitazione emotiva. Ogni dicembre arriva il caso che deve “dimostrare” che qualcuno sta cercando di cancellare il Natale, quando in realtà le vere minacce alle tradizioni non vengono certo da una dirigente scolastica, ma da una società che consuma il Natale come prodotto commerciale più che come tradizione culturale. Eppure, nessuno si indigna su questo. Nessuno si scandalizza per l’uso del Natale come strumento di marketing, per la sua trasformazione in un contenitore di consumismo. Le polemiche scattano solo quando c’è la possibilità di creare un nemico chiaro — un dirigente, una scuola, una scelta maldestra — utile a rafforzare un’identità politica.
Ogni anno è la stessa storia: basta un presepe spostato, un canto modificato, una recita rinominata “festa d’inverno”, e subito scatta la battaglia. Si ripetono le stesse frasi, si evocano gli stessi spettri, si crea lo stesso clima di allarme culturale. È una formula collaudata, che funziona perché è semplice, immediata, emotiva e soprattutto non richiede alcun investimento politico reale.
Nel frattempo, i problemi della scuola restano esattamente dov’erano: strutture fatiscenti, carenza cronica di insegnanti, stipendi bassi, dispersione scolastica in crescita, classi sovraffollate, mancanza di psicologi e mediatori culturali. Tutto questo non genera clamore. Non diventa virale. Non fa guadagnare voti. Invece parlare di Natale sì: perché tocca corde emotive superficiali, permette di costruire una narrativa identitaria immediata e soprattutto consente di evitare il cuore delle questioni serie.
Il vero paradosso è che il Natale non è affatto in pericolo. Non lo è mai stato. Una festa che ha attraversato secoli, guerre, trasformazioni sociali, rivoluzioni religiose e culturali non si sgretola certo per una strofa cambiata in una scuola. Le tradizioni resistono perché sono vive, perché appartengono alle persone, non alle recite scolastiche. E proprio perché il Natale è così radicato, usarlo come arma politica stagionale è un gesto di enorme superficialità.
In conclusione, la vicenda di Magliano in Toscana non dimostra che il Natale è minacciato. Dimostra che ogni dicembre qualcuno ha bisogno di dire che lo è. Dimostra che la strategia della paura funziona. Dimostra che creare divisione è più facile che creare comprensione. E dimostra, infine, che l’inclusione non si ottiene svuotando una tradizione, ma spiegandola e affiancandola ad altre. Una scuola che abbraccia identità diverse non deve cancellare il Natale: deve raccontarlo. E se ogni anno questa polemica ritorna, è perché fa comodo a molti, e perché una parte del pubblico è sempre pronta a ingoiare la solita zuppa riscaldata, senza accorgersi che la vera cancellazione non riguarda le tradizioni, ma la capacità di ragionare in modo adulto.






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