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Ripristinare la naja? Prima ripristiniamo gli adulti

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 29 nov
  • Tempo di lettura: 4 min
NAJA

Negli ultimi mesi è riesploso un entusiasmo curioso per la naja, come se fosse un oggetto vintage da rimettere in salotto per dare un tocco retro alla società. Ogni tanto qualcuno, con la sicurezza di un guru del bar sotto casa, ripete che ripristinare la leva obbligatoria “rimetterebbe in riga i giovani”. E la cosa sorprendente è che lo dicono con una tale disinvoltura che sembra quasi che stiano parlando di un corso estivo, non di un anno intero consegnato allo Stato. Io la naja l’ho fatta. E te lo dico chiaramente: ne ho un ricordo ottimo, pieno di momenti che, col tempo, la memoria scolpisce con una luce strana e affettuosa. Ma non voglio che l’affetto trasformi la verità. Ho avuto la fortuna di non subire nonnismo, ma sarebbe vile fingere che non sia mai esistito. Sarebbe come parlare di una città ignorandone i vicoli bui.

Nella caserma reale—non quella abbellita dalla nostalgia—c’erano camerate che sembravano frigoriferi, coperte ruvide come carta vetrata, materassi che ti obbligavano a dormire di taglio per evitare che la rete di ferro ti segnasse la schiena. Le lenzuola sembravano ricavate dal cartone, con quella consistenza secca che ti sfregava le braccia. La vita di caserma non era un manuale di formazione personale: era una parentesi sospesa, una specie di coma leggero della vita civile, durante il quale l’Italia continuava a correre mentre tu marciavi in cortile.


I nostalgici di oggi non ricordano mai il freddo che entrava dalle finestre, il rancio servito come punizione e non come pasto, l’odore di umidità che impregnava tutto, dalle scarpe alle divise. Parlano solo di “disciplina”, di “spirito di corpo”, delle risate tra commilitoni e delle marce che univano. Anche tutto questo è vero. Ma non è solo questo. La naja era anche guardie notturne infinite, fatte con un fucile vecchio tra le mani e un cappotto che non bastava, mentre pregavi che il vento gelido non ti addormentasse il cervello. Era un’alba sempre troppo presto, il caporale che ti svegliava con la grazia di un martello, e la sensazione di essere un numero dentro un meccanismo troppo grande e troppo lento.


C’era poi quel rituale oscuro che tanti preferiscono dimenticare: il nonnismo. Io ne sono stato graziato, e forse anche per questo ho un buon ricordo della mia esperienza. Ma sarebbe vile costruire un racconto pulito sapendo che per altri è stato un anno di umiliazioni, soprusi, vessazioni travestite da tradizioni. Il nonnismo funzionava come un vecchio debito morale: lo subivi, poi lo rifacevi. Una catena malata che si autoalimentava e che nessuno aveva il coraggio di tagliare. Far finta che non sia mai esistito significa tradire chi lo ha subito. E non è questo il Paese che merita un dibattito onesto.


Sotto il profilo economico e sociale, la leva obbligatoria non era affatto romantica. Era, per molte famiglie, un costo. Un figlio che studiava si fermava, un figlio che lavorava perdeva il posto. Nessuno ti pagava per quell’anno. Nessuno ti rimborsava i mesi persi. E quando rientravi nella vita, spesso la vita era già andata avanti. In un mondo veloce come quello attuale, imporre un anno di stop a una generazione sarebbe come lanciare un freno a mano sull’autostrada.


Eppure eccoci qui, con il grande revival del “ci vuole la naja per educare i giovani”. È un mantra che rivela non tanto un problema giovanile quanto un problema adulto. È sempre colpa dei giovani. È sempre carenza dei giovani. Sono sempre loro quelli irrisolti, fragili, dispersi. Ma chi dovrebbe educarli? Lo Stato? Una caserma? Una sveglia alle cinque del mattino? O magari la famiglia, quel luogo che avrebbe dovuto essere la prima scuola di disciplina, rispetto, responsabilità?

Viviamo in una società in cui molti genitori invocano lo Stato come se fosse un supplente. Genitori che parlano di mancanza di valori mentre passano metà giornata a fotografarsi in bagno, tra filtri pelle di pesca e illusioni di perfezione. Genitori che si lamentano dei figli, ma hanno sostituito la presenza con la notifica. Genitori che si disperano perché i figli “si aggregano in branchi”, ma dimenticano che un branco nasce quando la famiglia smette di fare la famiglia.

I ragazzi, nel frattempo, si arrangiano. Come sempre. Trovano aggregazioni alternative perché gli adulti sono impegnati altrove. Crescono tra un vuoto educativo e un eccesso di stimoli digitali. E anziché interrogarci su questa assenza, preferiamo proporre soluzioni facili: un anno di caserma e via, problema risolto. Ma la caserma non educa: addestra. Fa eseguire. Impone. E non c’è nulla di male nei contesti in cui l’addestramento serve, anzi. Ma confondere l’addestramento con l’educazione è il segno di un Paese che ha perso la capacità di guardare al futuro.


E poi diciamolo senza ipocrisie: chi invoca la naja non la invoca mai per sé. Sempre per gli altri. Sempre per “i giovani d’oggi”, come se fossero un’entità separata, una tribù estranea, un popolo barbaro da correggere con il rigore militaresco. Ma il vero nodo non sta nei giovani: sta negli adulti. Sta negli esempi che diamo. Sta nel modo in cui viviamo davanti ai ragazzi. Sta nella nostra mancanza di autorevolezza, nel nostro bisogno di delegare.


Ripristinare la naja non rimetterà in piedi una generazione. Rischia piuttosto di mascherare un fallimento collettivo: quello di aver confuso la libertà con l’indifferenza, la modernità con l’assenza di confini, il benessere con l’autocelebrazione. Non serve una caserma: servono adulti che abbiano il coraggio di essere adulti. Servono genitori che smettano di guardarsi allo specchio e inizino a guardare i figli. Servono famiglie che non demandino allo Stato ciò che nasce a casa: educare, correggere, sostenere, fermare quando serve.


La mia esperienza di naja è stata positiva. Lo ripeto. Ho ricordi che oggi, col filtro della maturità, assumono persino un sapore dolce. Ma la dolcezza non può cancellare l’amaro. Non può nascondere ciò che la naja è stata per molti altri: un contenitore di abusi, umiliazioni e sofferenze taciute. Non può trasformare un obbligo in un ideale. E non può diventare il rimedio universale per una società che ha bisogno, prima di tutto, di ritrovare se stessa.


La verità definitiva è semplice quanto scomoda: non è la naja che deve tornare. Devono tornare gli adulti, le famiglie, i confini, la responsabilità. Deve tornare la capacità di educare senza delegare. E forse, solo allora, non servirà più discutere di leve obbligatorie, perché i giovani avranno già ciò che oggi manca: un mondo adulto che non si fotografa allo specchio mentre loro crescono da soli.


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