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Remigrazione fa rima con Deportazione?

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 30 nov
  • Tempo di lettura: 3 min
REMIGRAZIONE

In Italia la parola “remigrazione” è stata lucidissima nell’atterrare nel dibattito politico: pulita, tecnica, chirurgica. Una parola nata in laboratorio comunicativo, fatta apposta per sembrare ordinata. In apparenza sembra un concetto semplice: chi non ha diritto di restare se ne va. Ma basta grattare la superficie per accorgersi che remigrazione è un contenitore linguistico elastico, pronto a deformarsi secondo chi lo pronuncia. E quando un termine diventa così elastico, conviene sempre chiedersi cosa potrà contenere domani.


Il tema è tornato prepotente sulle cronache anche grazie a episodi come quello raccontato recentemente da VareseNews, che ha documentato una manifestazione dell’estrema destra a Gallarate, con slogan identitari e rivendicazioni di “appartenenza” territoriale. È il tipo di scena che si ripete in molte piazze italiane: bandiere, megafoni, slogan che mescolano sicurezza e nostalgia, identità e rancore. Ed è proprio l’atmosfera di un caso come quello riportato da VareseNews che mostra quanto l’immigrazione sia diventata il palcoscenico preferito di una parte della politica italiana.

Lo schema è sempre lo stesso: mentre il Paese arranca tra salari fermi, sanità in sofferenza, scuole senza fondi e intere generazioni che emigrano, il tema dell’immigrazione resta il più semplice da maneggiare. La remigrazione funziona come scorciatoia narrativa: un concetto immediato, ripetibile, televisivamente digeribile. Un argomento che non chiede grafici economici né spiegazioni complesse. È un bersaglio simbolico perfetto, soprattutto in un clima dove la percezione conta più della realtà.

La domanda allora non è se la remigrazione sia giusta o sbagliata in sé. Perché sul piano normativo, l’Italia già prevede da decenni l’espulsione di irregolari, criminali o persone prive dei requisiti. Ciò che preoccupa è l’estensione semantica del termine: quando smette di riferirsi a casi specifici e diventa un’idea generale di “ritorno”. Quando smette di essere un provvedimento amministrativo e diventa un manifesto identitario. È qui che la rima con “deportazione” non fa più sorridere. Non perché l’Italia stia deportando qualcuno, ma perché l’uso politico delle parole crea sempre una traiettoria. La storia europea dovrebbe averci insegnato che le derive non cominciano mai con gli autocarri: cominciano con il linguaggio.

L’immigrazione, in questo senso, diventa una valvola di sfogo. Un punto di raccolta del malessere sociale. Quando la politica concentra il 90% del discorso pubblico su chi entra, e quasi niente su chi parte, su chi non riesce a curarsi, su chi vive con stipendi da fame, su chi insegna per 1.300 euro al mese, il risultato è sempre lo stesso: l’immigrato diventa la metafora del problema, invece che il sintomo. E così si crea un cortocircuito: la sicurezza viene ridotta all’ordine pubblico, l’identità a un feticcio, l’integrazione a una parola vuota.

Non c’è nulla di sbagliato nel sostenere che chi vive in un Paese debba rispettarne le leggi. È un principio basilare. Ma è ingenuo credere che la remigrazione sia la chiave per sistemare tutto quello che da decenni non funziona. E soprattutto è pericoloso quando quel termine viene brandito come arma retorica, usato per costruire una contrapposizione binaria tra “noi” e “loro”. Le piazze come quella documentata da VareseNews mostrano quanto questo meccanismo funzioni: identità territoriali proclamate a voce alta, come se un comune potesse essere proprietà privata.


La xenofobia non nasce da un giorno all’altro. È un processo lento, banalizzato, ripulito, normalizzato. Si alimenta di semplificazioni, slogan, paure mal indirizzate e soprattutto dalla sensazione, diffusa in tutto il Paese, che non ci sia nessuno a occuparsi dei problemi veri. E quando una società si sente abbandonata, il capro espiatorio diventa una scorciatoia irresistibile.


Alla fine la domanda resta sospesa: remigrazione fa davvero rima con deportazione? Non nella pratica. Ma nel modo in cui la parola viene usata, sì: è una rima concettuale, una rima politica, una rima emotiva. Una rima che avverte, più che accusare. Una rima che suggerisce che il linguaggio potrebbe essere il corridoio attraverso cui passa una certa visione del mondo.


Perché il punto non è l’immigrazione.Il punto è l’uso che se ne fa.


E il vero problema non è chi entra. Il vero problema è chi governa le parole.


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