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Avvento: il Natale non c'entra ma c'entra la propaganda

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 4 dic
  • Tempo di lettura: 4 min

AVVENTO

Qualche giorno fa ho pubblicato un articolo che diceva una cosa semplice: il Natale non è in pericolo, semmai lo è il buon senso. Oggi ci ricasco, perché l’Avvento è iniziato e invece di vedere un minimo di normalità, o almeno una parvenza di serenità, siamo già al solito teatrino. Non importa cosa significhi davvero questo periodo: quello che conta, come sempre, è trovare un nuovo pretesto per creare una polemica. E guarda caso, il pretesto torna ad essere lo stesso di ogni anno: crocifissi, presepi e presunte identità minacciate.


Parto da qui: se qualcuno mi chiede se voglio il crocifisso nelle scuole pubbliche, la risposta è no. Senza diplomazia. Nelle scuole della Chiesa, nessun problema. È coerente. Ma nelle scuole statali no, perché la scuola statale è laica per definizione. Non perché lo dico io, ma perché è così. E se proprio qualcuno sente la necessità di appendere simboli religiosi nelle scuole pubbliche, allora bisogna essere coerenti fino in fondo e appendere tutti i simboli religiosi rappresentati dalla comunità scolastica: cristiani, musulmani, ebrei, buddisti, ortodossi, induisti, e così via. La società è cambiata, le classi non sono più quelle del dopoguerra. Se vogliamo parlare di "tradizioni", almeno guardiamo la realtà.


Invece ogni anno ricomincia la stessa messinscena. L’Avvento non fa nemmeno in tempo a iniziare che già spunta l’allarme: gli immigrati vogliono togliere il crocifisso. Nessuno sa dire dove, quando, chi, come. Non esistono documenti, non esistono casi verificati, non esistono denunce. È una leggenda metropolitana, ma con una caratteristica precisa: funziona. Funziona benissimo. Alimenta la rabbia, crea divisione, consolida voti. E infatti viene ripetuta a ciclo continuo, come tutti i prodotti politici che rendono più di quanto costano.


La parte più surreale è che, storicamente, a togliere i simboli religiosi dalle scuole non sono stati gli immigrati, ma alcuni italiani convinti che la laicità dovesse essere applicata eliminando ogni riferimento religioso negli spazi pubblici. Italiani, non stranieri. Ma questo dettaglio rovina la narrazione, quindi viene elegantemente ignorato.


È qui che casca l’asino: il tema non è religioso, non è culturale, non è identitario. È politico. È propaganda allo stato puro. Una polemica prefabbricata che torna utile ogni anno, puntuale come un calendario dell’Avvento al contrario: invece di aprire finestrelle piene di cioccolatini, apriamo finestrelle piene di isteria mediatica.


E allora diciamolo chiaramente: io non mi sento minimamente in pericolo nelle mie tradizioni. Nemmeno un po’. Anche perché bisognerebbe prima definirle, queste tradizioni. Quali sarebbero? Quelle che ricordiamo solo a dicembre? Quelle che ignoriamo per undici mesi e poi diventano improvvisamente sacre quando qualcuno in TV decide che è il momento giusto per creare un nuovo fronte di battaglia? Se fossimo davvero legati alle nostre tradizioni, le vivremmo ogni giorno, non solo quando si avvicinano le elezioni.


Il problema è che tutto questo ha molto poco a che fare con la religione e tutto a che fare con la politica. È una strategia che conosciamo a memoria: si prende un simbolo, lo si gonfia fino a farlo diventare motivo di scontro, si crea un nemico e poi si grida alla difesa dell’identità. È un meccanismo semplice, quasi elementare, che però continua a funzionare perché gioca con le paure, con le insicurezze, con l’idea che qualcuno “là fuori” voglia toglierci qualcosa.


La verità è che non ci toglie niente nessuno. Il Natale non si tocca: non lo può toccare nessuno. Pure volendo, sarebbe impossibile. Il Natale è ovunque: nei negozi, nelle scuole, nei film, nelle tradizioni popolari, nella pubblicità, nei mercatini, nei panettoni che compaiono sugli scaffali dei supermercati già a fine ottobre. Nessuno può cancellarlo. E infatti nessuno ci sta provando. Non esiste questo problema. Esiste solo la sua rappresentazione politica.

Ed è interessante notare come ogni anno, in questo periodo, smettiamo di parlare delle cose reali: la scuola che cade letteralmente a pezzi, gli stipendi bassi, il costo della vita, le famiglie che non arrivano a fine mese, la sanità che non riesce più a garantire servizi. Tutto messo sotto il tappeto, come se non esistesse. L’unica cosa che sembra contare è l’ennesima crociata da quattro soldi sul presepe.

Il risultato è che arriviamo a Natale con la sensazione di essere sotto assedio, quando in realtà siamo solo sotto manipolazione. E la manipolazione funziona perché siamo un Paese che vive nella campagna elettorale permanente. La ricerca di qualche centinaio di voti in più vale qualsiasi polemica, anche quelle che non hanno alcun legame con la vita reale delle persone.


Non è questo il problema dell’Italia. Il problema dell’Italia non è il crocifisso. Non è il presepe. Non sono gli immigrati. Il problema è che siamo diventati allergici alla complessità. Preferiamo parlare del nulla, purché sia un nulla che divide. E mentre discutiamo per settimane di simboli, non ci accorgiamo che le cose che contano davvero passano sotto traccia.


L’Avvento dovrebbe essere un periodo di attesa, che uno sia credente o meno. Un tempo di concentrazione, di bilanci, di ripartenza. Invece è diventato un campo di battaglia costruito a tavolino. Ci ritroviamo a difendere tradizioni che non viviamo più, simboli che ricordiamo solo quando servono come armi. Le tradizioni vere non hanno bisogno di protezione. Hanno bisogno di autenticità. Il resto è solo una lunga, continua, inutile campagna elettorale. E anche questa, volendo, è diventata una tradizione italiana. Ma non è una tradizione di cui possiamo andare fieri.


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