Australia vieta l’accesso ai social ai minori di 16 anni: e noi continuiamo a crescere figli davanti allo schermo
- Max RAMPONI

- 4 giorni fa
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Quando si è diffusa la notizia che Australia vieta l’accesso ai social ai minori di 16 anni, molti hanno reagito come se il governo avesse appena bandito la libertà stessa. Urlacci, indignazione, allarmismi. La solita recita. Nessuno, però, ha avuto l’onestà di guardare negli occhi il vero problema: i nostri figli non sono dipendenti dai social… sono stati abbandonati ai social. Da chi? Dagli adulti che avrebbero dovuto educarli.
Il fatto che Australia vieta l’accesso ai social ai minori di 16 anni non è un capriccio autoritario. È l’ammissione brutale di un fallimento collettivo. Lo Stato australiano ha fatto ciò che moltissimi genitori si rifiutano di fare: togliere lo smartphone dalle mani di ragazzini che vivono più nel feed che nella realtà. Un gesto estremo? Sì. Ma anche la dimostrazione che, quando la famiglia abdica al proprio ruolo, qualcuno deve pur prendere in mano il volante.
Perché i nostri minorenni non sono “vittime del sistema”. Sono figli lasciati soli davanti allo schermo, parcheggiati come soprammobili luminosi. Non giocano al parco: scrollano. Non parlano: scrollano. Non litigano, non riflettono, non osservano: scrollano. Gli occhi fissi su TikTok come falene attirate da una luce a LED che non scalda, non nutre, non insegna.
È grottesco: i genitori si lamentano della “dipendenza dei giovani dai social”, ma sono gli stessi che consegnano lo smartphone a un bambino di otto anni per avere un’ora di pace. E così nasce la nuova infanzia digitale: silenziosa, immobile, ipnotizzata. Una generazione che conosce le transizioni video ma non conosce la noia, che sa imitare un balletto ma non sa rispondere a una domanda senza ansia.
Intanto in Australia la situazione è stata letta con meno ipocrisia. Ecco perché Australia vieta l’accesso ai social ai minori di 16 anni: perché qualcuno ha finalmente ammesso che lo sviluppo cognitivo di un tredicenne non è compatibile con piattaforme progettate per creare dipendenza. E se i genitori non hanno la forza, la voglia o la maturità per dire no, allora provano a farlo le istituzioni.
La reazione da questa parte del mondo, però, resta tragicomica. Ci scandalizziamo per il divieto, ma non ci scandalizziamo quando un ragazzino passa tre ore al giorno a chiedere approvazione al vuoto. Ci scandalizziamo per la “censura”, ma non ci scandalizziamo quando un dodicenne costruisce la propria autostima sulla base dei like di perfetti sconosciuti.
I social non sono i cattivi della storia. Sono strumenti potenti e spietati, certo, ma non sono nati per crescere i nostri figli. Siamo stati noi a usarli come babysitter digitali, come anestetico educativo, come scorciatoia emotiva. E ora ci stupiamo se i risultati sono devastanti.
Il divieto australiano è un pugno sul tavolo. Un modo per ricordare che l’infanzia non è proprietà delle piattaforme. Che la crescita non può essere delegata agli algoritmi. Che un adolescente ha bisogno di mondo reale, di errori veri, di frustrazioni vere, non di filtri glitterati e notifiche a ciclo continuo. Forse la misura non salverà il pianeta. Ma almeno ha il coraggio di dire una cosa che noi non vogliamo ascoltare: i social non hanno rubato i nostri figli — glieli abbiamo consegnati.
E allora la domanda finale resta in piedi, tagliente come una lametta:siete sicuri che a essere “minori” siano loro? Oppure siamo noi, adulti troppo stanchi per educare e troppo fragili per dire no?







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