“Porcellini d’Europa”, secondo Putin
- Max RAMPONI

- 11 ore fa
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C’è qualcosa di profondamente rivelatore quando un leader mondiale, nel pieno di una guerra che sta ridisegnando equilibri geopolitici, sceglie di usare una metafora da cortile. Vladimir Putin che parla di “porcellini” riferendosi ai leader europei non sta facendo colore, non sta scivolando in una battuta infelice. Sta scegliendo deliberatamente un’immagine. E le immagini, in politica, non sono mai innocenti.
Il porcellino non è solo un animale. È una figura culturale. È l’idea di chi segue il cibo, di chi grufola dove qualcun altro ha deciso di gettarlo, di chi non guida ma si accoda. È un’immagine volutamente umiliante, infantile, quasi caricaturale. Ed è proprio per questo che funziona. Perché riduce un discorso complesso – l’autonomia strategica europea, il rapporto con gli Stati Uniti, la guerra in Ucraina, la dipendenza energetica, militare e politica – a una scena semplice, immediata, comprensibile a chiunque. Non serve capire la geopolitica per capire cosa intende Putin. Basta aver visto una fattoria.
Il collegamento con Joe Biden, poi, non è un’aggiunta casuale. È il centro della narrazione. L’Europa, nella rappresentazione del Cremlino, non è un soggetto politico autonomo ma un’estensione dell’agenda americana. Non decide: esegue. Non pensa: reagisce. Non guida: segue. Biden diventa così il padrone del recinto, colui che distribuisce il mangime strategico – sanzioni, armi, linee diplomatiche – mentre i leader europei si affannano a non restare indietro, a non perdere il posto alla mangiatoia della legittimità occidentale.
Ora, che questa rappresentazione sia vera o falsa è quasi secondario. Il punto è che è credibile. Ed è proprio questo il problema. Perché una metafora politica funziona solo se intercetta un dubbio già presente. E il dubbio, in Europa, c’è da tempo. L’idea che l’Unione Europea parli molto di valori ma poco di potere. Che invochi l’unità ma fatichi a tradurla in una visione strategica indipendente. Che si muova spesso per reazione, raramente per iniziativa.
Putin non sta convincendo l’Occidente. Sta parlando a casa sua, ai Paesi non allineati, a chi guarda l’Europa come un’entità economicamente forte ma politicamente timida. Sta dicendo: guardateli, non sono leader, sono follower ben vestiti. E nel mondo multipolare che sta emergendo, questa è una accusa pesantissima. Perché oggi non conta solo da che parte stai, ma quanto sei capace di stare in piedi da solo.
Il paradosso è che questa retorica animalesca, apparentemente rozza, è in realtà sofisticata. Serve a spostare il dibattito dal piano morale – dove l’Occidente si sente forte – al piano del potere nudo. Putin non discute di democrazia, diritti, libertà. Discute di chi comanda e chi obbedisce. E in quel terreno scivoloso, l’Europa appare spesso impacciata, più preoccupata di mantenere una postura corretta che di esercitare una vera influenza.
Biden, in questo schema, non è solo un avversario. È il simbolo di un’America che continua a pensarsi come perno del mondo, anche quando il mondo sta chiaramente cambiando. Un’America anziana, stanca, ma ancora capace di imporre l’agenda. Putin lo sa e sfrutta questa immagine per costruire un racconto alternativo: quello di un Occidente guidato da vecchi schemi e seguito da alleati che non osano più pensare fuori dal recinto.
E qui il commento diventa inevitabilmente scomodo. Perché se l’insulto funziona, se la metafora attecchisce, forse non basta liquidarla come propaganda russa. Forse dice qualcosa anche su di noi. Sul fatto che l’Europa, mentre rivendica un ruolo globale, continua a comportarsi come un attore regionale con ambizioni morali ma senza muscoli politici proporzionati. Sul fatto che la dipendenza dagli Stati Uniti non è solo militare, ma mentale.
I “porcellini” non sono un’offesa fine a sé stessa. Sono uno specchio deformante. E come tutti gli specchi deformanti, esagerano, distorcono, ma partono da una base reale. La guerra in Ucraina ha mostrato un’Europa capace di unità straordinaria sul piano simbolico, ma ancora fragile sul piano decisionale autonomo. Forte nelle dichiarazioni, meno nella capacità di dettare tempi, soluzioni, visioni di lungo periodo.
Questo non rende Putin un analista lucido né Biden un burattinaio onnipotente. Rende però evidente una cosa: la battaglia non è solo sul campo, ma nel linguaggio. E chi riesce a imporre una metafora semplice spesso vince un pezzo di guerra prima ancora che vengano sparati i colpi.
Alla fine, i “porcellini” restano un’immagine volutamente sgradevole. Ma ignorarla sarebbe un errore. Perché non parla solo di Russia, di Stati Uniti o di Ucraina. Parla di un’Europa che deve decidere se continuare a farsi raccontare dagli altri o iniziare, finalmente, a raccontarsi da sola. Anche rischiando di sbagliare. Anche rischiando di non piacere. Perché nel mondo che sta arrivando, chi si limita a seguire l’odore del mangime rischia prima o poi di scoprire che il recinto non era suo.







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