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Libertà di espressione nell’Unione Europea: quando il dissenso diventa una minaccia politica

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 17 ore fa
  • Tempo di lettura: 3 min

CENSURA

Negli ultimi anni la libertà di espressione nell’Unione Europea è entrata in una fase di trasformazione profonda, non dichiarata ma evidente, che merita di essere analizzata senza slogan e senza isterismi. Non si tratta di un singolo provvedimento né di una deriva improvvisa, ma di un cambio di paradigma che riguarda il modo stesso in cui il potere europeo concepisce il dissenso, il pluralismo e il confine tra sicurezza e controllo del discorso pubblico. Aspettiamoci di tutto, dunque, non come esercizio di paranoia ma come atto di realismo politico, perché quando i segnali diventano sistemici smettono di essere incidenti e iniziano a configurarsi come modello.

Il punto centrale non è più la repressione dei reati né la valutazione dei fatti in quanto tali. Il baricentro si è spostato dall’azione all’interpretazione, dal comportamento all’analisi, dal fatto alla narrazione che lo accompagna. In questo nuovo quadro normativo e culturale, ciò che viene osservato e classificato non è tanto ciò che si fa, ma ciò che si pensa e, soprattutto, ciò che si dice. Il dissenso non allineato, anche quando non viola alcuna legge, viene progressivamente trattato come un potenziale rischio per la sicurezza, trasformando il pensiero critico da fondamento democratico a variabile sospetta.

Non è necessario invocare Vladimir Putin per comprendere questo meccanismo, né difendere la Russia o adottare posizioni filorusse. Anzi, il fatto stesso che ogni analisi critica debba essere preceduta da una dichiarazione di non appartenenza ideologica rivela la fragilità del sistema. Il problema non è Mosca, ma Bruxelles, o meglio il modo in cui l’Unione Europea sta ridefinendo ciò che è dicibile e ciò che non lo è. Il giornalista che non ripete il copione ufficiale viene accusato di propaganda. L’analista che ragiona sui rapporti di forza reali, evitando semplificazioni morali, viene etichettato come parte della guerra ibrida. Lo studioso che spiega la Russia come attore geopolitico, senza demonizzarla né assolverla, viene percepito come una minaccia alla sicurezza europea.

È in questo slittamento che si manifesta una forma nuova e più sottile di censura nell’Unione Europea, una censura che non agisce attraverso divieti espliciti ma attraverso la delegittimazione preventiva. Comprendere viene confuso con giustificare, analizzare con sostenere, descrivere con promuovere. Quando questa confusione diventa strutturale, il pluralismo informativo smette di essere un valore e diventa un problema da gestire. Non serve più dimostrare che un contenuto sia falso; è sufficiente che non sia utile alla narrazione dominante.

Il passaggio più delicato avviene quando questo approccio si traduce in strumenti concreti di punizione preventiva. Il blocco dei conti correnti, il sequestro dei beni, la limitazione della libera circolazione non vengono più applicati esclusivamente in seguito a reati accertati, ma come misure cautelari basate su valutazioni politiche e interpretative. In questo contesto, parlare di sanzioni non è più sufficiente. Si entra nel territorio della punizione preventiva, dove ciò che viene colpito non è un comportamento illecito, ma una posizione ritenuta potenzialmente pericolosa.

Il Digital Services Act, spesso citato come strumento di tutela contro la disinformazione, si inserisce perfettamente in questa dinamica più ampia di controllo del discorso pubblico europeo. Al di là delle intenzioni dichiarate, il risultato pratico è l’introduzione di meccanismi che incentivano la rimozione preventiva dei contenuti, spingendo piattaforme e intermediari a privilegiare la conformità rispetto al rischio. In un simile contesto, la libertà di espressione in Europa non viene formalmente abolita, ma progressivamente compressa, svuotata di efficacia attraverso un sistema di responsabilità indiretta.

Questo processo non è il frutto di un errore né di una deriva accidentale. L’Unione Europea sta reagendo a una condizione di debolezza politica, militare e strategica cercando di controllare l’unico spazio che riesce ancora a governare con una certa efficacia: lo spazio simbolico e comunicativo. Quando il potere non riesce più a convincere, inizia a sanzionare. Quando non è più in grado di produrre consenso, tenta di imporre conformità. Il linguaggio resta quello della democrazia e dei diritti, ma la sostanza cambia, perché la sicurezza diventa il grimaldello attraverso cui restringere il campo del dissenso legittimo.


Aspettiamoci di tutto, quindi, non perché siamo entrati in una distopia improvvisa, ma perché stiamo assistendo a un processo graduale di normalizzazione del sospetto. Normalizzazione dell’idea che alcune opinioni siano accettabili e altre no, non in base alla loro veridicità ma alla loro utilità politica. Normalizzazione dell’equazione tra dissenso e minaccia. Normalizzazione di una censura che non si presenta come tale, ma come tutela della stabilità democratica.

Questa non è sicurezza. È paura travestita da democrazia. E la storia insegna che quando la paura diventa criterio di governo, il prezzo lo pagano sempre coloro che continuano a esercitare il pensiero critico, anche quando farlo diventa scomodo.

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