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Unione Europea, il continente che non decide: Mosca e Washington ridisegnano il futuro

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 3 giorni fa
  • Tempo di lettura: 3 min

BESTIARIO

L’Unione Europea viene spesso raccontata come un grande progetto politico, ma quando la storia accelera si scopre che è soprattutto un grande spazio amministrativo. Mentre Mosca e Washington tornano a parlarsi da potenze, ridisegnando equilibri, confini, sfere d’influenza e linee rosse, l’Europa resta sospesa in una posizione che non è neutralità e non è mediazione. È assenza di decisione. Non siede davvero al tavolo, ma nemmeno si alza per andarsene. Resta lì, con il taccuino in mano, pronta a commentare ciò che altri hanno già stabilito. Non è una lettura ideologica, è una constatazione.


Le grandi partite geopolitiche non aspettano i tempi dei comunicati stampa né le mediazioni infinite tra ventisette capitali che non condividono una visione comune di politica estera, sicurezza e potere. L’Europa, intesa come Unione Europea, ha scelto negli anni di essere un mercato prima che un soggetto politico, una macchina normativa prima che un attore strategico. Ha funzionato finché il mondo ha finto di essere stabile. Quando la stabilità è saltata, sono rimaste le regole, ma è sparita la forza di decidere. Mosca e Washington agiscono secondo logiche antiche e brutali, che piacciano o no: interesse nazionale, deterrenza, influenza. L’Europa risponde con formule prudenti, dichiarazioni congiunte e vertici straordinari che producono soprattutto fotografie. Non perché manchino intelligenze o diplomazia, ma perché manca un centro decisionale reale. Nessuno comanda davvero, quindi nessuno rischia davvero. E chi non rischia, non conta. Il paradosso europeo è tutto qui. Si parla di autonomia strategica da anni, ma ogni crisi dimostra che l’autonomia resta un concetto, non una pratica. Dipendenza energetica prima, dipendenza militare poi, dipendenza politica sempre.


Quando Stati Uniti e Russia si muovono, l’Europa reagisce. Quando prendono iniziative, Bruxelles valuta. Quando definiscono scenari, l’Unione commenta l’importanza del dialogo. È un linguaggio che rassicura l’opinione pubblica interna, ma non sposta di un millimetro i rapporti di forza. La verità è che l’Europa non decide perché non ha mai voluto davvero decidere. Ha delegato la sicurezza agli Stati Uniti, la politica estera a compromessi fragili, la visione a un’idea astratta di multilateralismo che funziona solo se tutti giocano secondo le stesse regole. Ma la geopolitica non è un seminario universitario, è un campo di forze. E in un campo di forze, chi non esercita pressione viene spinto ai margini. Non si tratta di invocare un’Europa aggressiva o militarista, caricature utili solo al dibattito sterile. Si tratta di riconoscere che un continente di oltre quattrocento milioni di persone, con una potenza economica enorme, non può continuare a comportarsi come se bastasse il diritto a sostituire il potere. Il diritto senza potere è un appello, non una leva.


Quando Mosca e Washington discutono del futuro dell’Europa orientale, della sicurezza del continente, dei nuovi equilibri globali, l’Europa dovrebbe essere parte attiva per definizione. Invece è spesso oggetto, non soggetto. Non perché venga esclusa formalmente, ma perché si è autoesclusa rinunciando a una voce unica e autorevole. Ogni Stato membro guarda prima al proprio interesse immediato, poi, eventualmente, a quello comune. Il risultato è una somma di debolezze che non fa una forza. L’Unione Europea è bravissima a normare i tappi delle bottiglie e lentissima a costruire una strategia condivisa sulla sicurezza del continente. È un’iperbole, certo, ma rende l’idea di una sproporzione ormai evidente. Il mondo non aspetta che l’Europa si metta d’accordo. Va avanti. Ridisegna. Decide. E mentre altri tracciano mappe, l’Europa discute di processi. Il rischio non è la perdita di prestigio, concetto astratto, ma la perdita di rilevanza concreta. Un continente che non decide diventa terreno di decisioni altrui.


Non è un complotto, è una dinamica storica ben nota. Chi non esercita sovranità la subisce. Chi non parla con una voce sola viene ascoltato a volume basso. L’Europa non è debole per mancanza di risorse, ma per eccesso di prudenza elevata a sistema. Ha trasformato il compromesso da strumento politico a fine ultimo. E quando il compromesso diventa un fine, la politica muore soffocata dalla propria cautela. In questo scenario, Mosca e Washington non stanno “ridisegnando l’Europa” per cattiveria o arroganza. Stanno facendo ciò che fanno le potenze: decidere. L’Europa, invece, continua a interrogarsi su come essere percepita, su quale linguaggio usare, su come non urtare sensibilità interne. È un continente che ha paura di esercitare il proprio peso, come se il potere fosse una colpa e non una responsabilità. Finché questa ambiguità resterà irrisolta, l’Unione Europea continuerà a esistere come struttura, ma non come attore. Presente nelle mappe, assente nelle decisioni. E in un mondo che si riorganizza a colpi di scelte nette, questa non è una posizione morale. È una resa silenziosa.


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