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Perché Putin vuole il Donbass: non c’entra la nostalgia sovietica, c’entra il potere

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 5 dic
  • Tempo di lettura: 3 min

DONBASS

Capire perché Putin voglia il Donbass significa togliere di mezzo tutte le illusioni romantiche, le analisi da bar e le fantasie sull’URSS che ritorna. Il Donbass non è un feticcio nostalgico, non è un capriccio imperialista improvviso, non è nemmeno “solo” una questione etnica. Il Donbass è una leva. Una pressione permanente. È il pezzo di scacchiera che permette a Mosca di controllare il ritmo della partita. Per questo è diventato il punto più incendiato d’Europa.

Il Donbass per l’Ucraina non è semplicemente una regione: è un pezzo di economia pesante, un ex cuore industriale, una zona che durante l’Unione Sovietica valeva più di quanto oggi ci si ricorda. Chi lo controlla può rallentare, indebolire o condizionare Kiev. Ed è proprio questo il punto: un’Ucraina integra, stabile e orientata a Occidente rappresenta per Mosca una perdita di influenza strategica enorme. Conflitto aperto significa invece paralisi diplomatica e militare. E un Paese con una guerra attiva non entra nella NATO. Questo da solo vale tutto: finché il Donbass resta instabile, Kiev rimane fuori da qualsiasi alleanza atlantica. Per il Cremlino è una vittoria silenziosa ma decisiva.

La questione linguistica dei russofoni, agitata come giustificazione morale, è soprattutto uno strumento. Funziona, emoziona e permette a Putin di presentare l’intervento come una missione di protezione. Ma la logica è sempre la stessa: si afferma che una minoranza è minacciata, si alza il volume della propaganda, si legittima un’azione militare e si crea un conflitto congelato che garantisce a Mosca un potere continuo sul territorio. È già successo altrove: Georgia, Moldavia, Caucaso. Il Donbass è un’applicazione su scala più grande dello stesso schema.


Poi c’è la questione della Crimea. Senza un corridoio terrestre che collega la Russia alla penisola annessa illegalmente nel 2014, Mosca dipenderebbe da un ponte vulnerabile e da rifornimenti poco sicuri. Il Donbass permette di costruire una continuità territoriale. Perderlo significherebbe mettere a rischio l’intero progetto di controllo sulla Crimea. Per Putin è un prezzo che non può pagare.


C’è anche una dimensione interna: Putin non può permettersi di perdere. La politica estera in Russia non è solo una questione strategica, ma identitaria. Il potere di Putin si fonda sull’idea che la Russia sia forte, decisa, in grado di dire no all’Occidente e di proteggere i suoi interessi ovunque. Ritirarsi dal Donbass significherebbe ammettere una sconfitta devastante non solo militare, ma simbolica. Sarebbe una crepa nel suo contratto psicologico con i cittadini russi, una perdita di prestigio impossibile da sostenere.


E poi c’è il fattore storico, quello che in Occidente si finge di non capire: la Russia teme i confini diretti con potenze ostili. È una paranoia antica, alimentata da secoli di invasioni dall’Europa. Per Mosca, avere la NATO ai propri confini non è una questione burocratica: è una minaccia esistenziale. Il Donbass, controllato direttamente o tramite un conflitto permanente, serve anche a questo: a impedire che l’Ucraina diventi un’estensione della sfera atlantica.

La verità finale è semplice: il Donbass non è l’obiettivo, è il mezzo. Il vero obiettivo è condizionare l’Ucraina, limitarne il futuro, impedirle di diventare troppo occidentale, troppo autonoma, troppo vicina alla NATO. Il Donbass è la chiave di questo meccanismo. È la valvola che Putin apre e chiude per controllare la pressione.

E fino a quando rimarrà una leva efficace, la Russia non lo abbandonerà mai. Non ha alcun motivo per farlo.Per questo la guerra continua.Per questo la pace non si vede.E per questo il Donbass resta — e resterà — uno dei luoghi più strategici e contesi del continente europeo, non per ciò che è, ma per ciò che permette di ottenere.


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