Perché l’accanimento contro Francesca Albanese? Quando il diritto internazionale diventa scomodo
- Max RAMPONI

- 1 giorno fa
- Tempo di lettura: 3 min

Negli ultimi mesi il nome Francesca Albanese è diventato oggetto di un accanimento costante nel dibattito pubblico. Attacchi politici, critiche mediatiche, tentativi di delegittimazione personale. Il tutto concentrato su una figura che, almeno formalmente, dovrebbe rappresentare una funzione tecnica e indipendente delle Nazioni Unite. Da qui la domanda che molti evitano di affrontare nel merito: perché questo accanimento contro Francesca Albanese?
Francesca Albanese è la Relatrice Speciale ONU sui Territori Palestinesi Occupati. Un incarico che, nella prassi diplomatica, viene spesso interpretato in modo prudente, quasi notarile. Lei ha scelto una strada diversa. Ha applicato il diritto internazionale in maniera diretta, documentata e senza attenuanti linguistiche. Nei suoi rapporti non parla genericamente di “conflitto”, ma di occupazione, obblighi degli Stati, responsabilità giuridiche e possibili violazioni del diritto umanitario internazionale. È qui che nasce il problema.
Quando il linguaggio resta vago, tutti possono dirsi d’accordo. Quando diventa tecnico e verificabile, costringe a prendere posizione. Ed è proprio questo che rende Francesca Albanese scomoda. Le sue analisi non si prestano facilmente alla polemica emotiva perché si fondano su convenzioni internazionali, precedenti giuridici e documentazione ufficiale. Contestare questo approccio significa entrare nel merito. Molto più semplice, invece, spostare l’attenzione sulla persona.
L’accanimento mediatico contro Francesca Albanese segue uno schema ormai rodato. Raramente le critiche affrontano i contenuti dei suoi rapporti ONU. Molto più spesso si concentrano sul tono, sulle intenzioni, sulla presunta imparzialità o su etichette politiche appiccicate con una certa disinvoltura. È la classica strategia di delegittimazione personale: quando non si riesce a confutare ciò che viene detto, si prova a screditare chi lo dice.
In questo modo il dibattito viene spostato dal piano giuridico a quello emotivo. Francesca Albanese non è più una giurista che svolge un mandato ONU, ma diventa una figura “controversa”, “faziosa”, “ideologica”. Definizioni vaghe, ma utili a evitare una discussione seria sulle responsabilità e sulle norme del diritto internazionale. Il risultato è una polarizzazione artificiale che giova solo a chi preferisce il rumore al confronto.
C’è poi un elemento che pesa più di quanto si voglia ammettere. Francesca Albanese è una donna che non addolcisce il linguaggio e non abbassa la voce. Non si rifugia nella diplomazia neutra, non cerca consenso mediatico, non modula le parole per risultare rassicurante. In molti contesti questo atteggiamento viene ancora percepito come una colpa. Gli stessi tratti che in un uomo verrebbero letti come fermezza o rigore, in una donna diventano ossessione o militanza.
L’accanimento contro Francesca Albanese non nasce quindi da un errore isolato o da una dichiarazione fuori posto. Nasce dal rifiuto di interpretare il ruolo in modo ornamentale. Il suo lavoro ricorda a governi e istituzioni che il diritto internazionale non è un concetto astratto, ma un insieme di regole vincolanti, valide anche quando riguardano alleati politici e interessi strategici.
In un contesto internazionale in cui il diritto viene spesso evocato come principio morale ma applicato in modo selettivo, questo approccio risulta intollerabile. Non perché sia estremo, ma perché è coerente. Non perché sia ideologico, ma perché è fondato su norme che molti preferirebbero tenere sullo sfondo. Le polemiche passeranno, come passano sempre. L’indignazione a intermittenza troverà altri bersagli. Quello che resterà saranno i documenti, i rapporti, le analisi scritte nero su bianco. È questo, in fondo, il vero motivo dell’accanimento contro Francesca Albanese: non parla per slogan, ma per atti. E quelli, a differenza del rumore, restano.







Commenti