Quando la parola “antisemitismo” è usata per giustificare uno sterminio
- Max RAMPONI

- 15 ore fa
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Ci sono parole che nascono per difendere e finiscono per proteggere altro. Antisemitismo è una di queste. Una parola necessaria, storicamente fondata, carica di un peso che nessuna società europea può permettersi di minimizzare. Serve a riconoscere, denunciare e contrastare l’odio contro gli ebrei, un odio che ha prodotto una delle più grandi tragedie del Novecento. Ma quando una parola così viene usata in modo automatico, sistematico, fuori contesto, allora smette di essere uno strumento di difesa e diventa uno scudo politico. E quando uno scudo politico viene usato per neutralizzare qualsiasi critica a un governo, anche davanti a migliaia di civili uccisi, qualcosa si spezza. Non sul piano ideologico, ma su quello semantico e morale.
Criticare il governo Netanyahu non è antisemitismo. Documentare ciò che accade a Gaza non è antisemitismo. Chiedere conto di bombardamenti, assedi, distruzione di infrastrutture civili non è antisemitismo.
Eppure, nel dibattito pubblico contemporaneo, queste distinzioni vengono sistematicamente cancellate. La parola antisemitismo viene evocata come una sirena d’allarme che zittisce tutto il resto. Non per difendere gli ebrei dall’odio, ma per impedire la discussione su ciò che Israele, come Stato e come governo, sta facendo. È una scorciatoia retorica potente, perché attinge a una memoria collettiva legittima e dolorosa. Ma proprio per questo è pericolosa. Perché trasforma la memoria in arma e la storia in lasciapassare morale. Quando la parola antisemitismo viene usata per giustificare, minimizzare o rendere intoccabile una distruzione sistematica della popolazione civile palestinese, non sta più svolgendo la sua funzione originaria. Sta coprendo altro. E ciò che copre sono fatti documentati: migliaia di morti, la maggioranza civili, bambini inclusi, città rase al suolo, ospedali colpiti, una popolazione intrappolata.
Chiamare tutto questo “legittima difesa” senza ammettere alcun limite, alcuna proporzione, alcuna responsabilità, significa svuotare il diritto internazionale di senso. Le bombe non cambiano peso in base alla storia di chi le sgancia. La sofferenza non diventa accettabile per eredità. E uno sterminio non smette di essere tale perché chi lo compie appartiene a un popolo che ha conosciuto la persecuzione. In questo contesto, la politica italiana offre uno spettacolo desolante.
La destra, in particolare, ha scelto una posizione di allineamento totale e acritico con il governo Netanyahu. Non una solidarietà verso Israele come Stato, non una difesa della popolazione israeliana colpita dagli attacchi terroristici, ma un sostegno politico pieno a un esecutivo che ha scelto la strada della forza indiscriminata. Salvini e altri esponenti della destra italiana hanno assunto una postura dichiaratamente anti-palestinese, evitando accuratamente qualsiasi riferimento alla sofferenza civile a Gaza. In questa narrazione, la Palestina scompare. Non come Stato, ma come popolo. Parlare di civili palestinesi diventa sospetto. Chiedere moderazione diventa ambiguità. Criticare Netanyahu diventa antisemitismo. È una destra che rivendica valori occidentali e civiltà, ma accetta senza esitazioni la distruzione sistematica di un territorio, purché avvenga sotto l’etichetta della sicurezza. Una destra che si dice sovranista ma rinuncia a qualsiasi autonomia di giudizio, preferendo l’allineamento ideologico alla responsabilità politica.
Dall’altra parte, la sinistra italiana non offre un’alternativa credibile. Al contrario, utilizza la causa palestinese come strumento narrativo, come bandiera da sventolare quando conviene, come occasione per cavalcare l’indignazione. Palestina come simbolo, non come realtà complessa. Gaza come parola chiave, non come luogo abitato da persone reali. La tragedia viene trasformata in capitale politico: cortei, slogan, post, prese di posizione spesso tardive o superficiali. In questo modo, la sinistra finisce per svuotare la causa palestinese di serietà politica, riducendola a propaganda. E così facendo contribuisce anche lei alla confusione, perché rinuncia alla distinzione tra Stato di Israele, governo Netanyahu e popolazione ebraica, lasciando spazio a letture ambigue che facilitano l’accusa di antisemitismo. Non per odio, ma per approssimazione.
Il risultato è un dibattito tossico, in cui ogni parola viene strumentalizzata. Se critichi Israele sei antisemita. Se parli di Gaza sei un fiancheggiatore del terrorismo. Se chiedi distinzione sei accusato di ambiguità. È un clima che non difende nessuno, ma serve solo a chi non vuole discutere seriamente di responsabilità, proporzionalità, diritto internazionale. In questo gioco sporco, la parola antisemitismo perde forza. Perché quando tutto è antisemitismo, niente lo è più. E quando servirà davvero – perché l’antisemitismo reale esiste ancora – sarà più difficile riconoscerlo e combatterlo. Difendere il significato di quella parola oggi significa rifiutarne l’abuso. Significa affermare che si può, e si deve, condannare l’odio contro gli ebrei senza concedere immunità politica a un governo. Significa dire che nessuna storia, nessun trauma, nessuna memoria può essere usata per giustificare la distruzione sistematica di civili. La politica italiana, da destra a sinistra, sta dimostrando di non essere all’altezza di questa distinzione. La destra usa l’antisemitismo come scudo ideologico. La sinistra usa la Palestina come strumento di consenso. Entrambe tradiscono le vittime. Entrambe tradiscono la verità. E quando le parole vengono piegate fino a questo punto, non restano che i fatti. E i fatti, oggi, parlano di una tragedia reale che nessuna etichetta può cancellare.





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