Il mondo si muove senza chiedere permesso, l’Europa resta indietro
- Max RAMPONI

- 6 dic
- Tempo di lettura: 3 min

Il mondo si muove senza chiedere permesso, e il 5 dicembre 2025 ne ha dato una prova limpida come la luce tagliente di un tramonto invernale. Mentre la vita di otto miliardi di persone scorreva con la solita indifferenza cosmica, tre città – Washington, Nuova Delhi, Chengdu – hanno mostrato in filigrana la nuova geografia del potere globale, quella che molti in Europa fingono di non vedere per paura di ammettere che il Continente non tiene più il passo. A Washington, la nuova Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti è arrivata come una porta che sbatte in faccia a un’Europa che si crede ancora indispensabile. Basta leggere il documento per capire che l’era in cui l’America ricopriva l’Europa con la sua ombra protettiva sta svanendo come fumo nel vento.
Non si parla più di minaccia russa in termini apocalittici, non si ripete la liturgia della NATO in espansione infinita: gli Stati Uniti, semplicemente, non intendono più farsi custodi di un continente che insiste a giocare una partita tutta sua, spesso contro i propri stessi interessi. Gli analisti più lucidi, come Scott Ritter, lo ripetono da anni: la narrativa della “minaccia russa” ha prodotto un’Europa più fragile, non più sicura, e ora Washington lascia intendere che un eventuale scontro con Mosca potrebbe non vedere più i marines attraversare l’Atlantico. È un messaggio di quelli che filtrano lentamente, come una cattiva notizia sussurrata in un corridoio: non fa rumore, ma non passa inosservata.
Il multipolarismo non è più un concetto accademico, è la realtà di tutti i giorni. L’Europa, però, resta impantanata in un copione scritto trent’anni fa. Mentre il potere mondiale si sposta altrove, noi restiamo seduti al tavolo di un bistrot ormai vuoto, convinti che prima o poi qualcuno tornerà a chiederci un’opinione. A Nuova Delhi, lo stesso giorno, l’accoglienza calorosa riservata a Vladimir Putin ha ricordato al mondo che l’India non è più una comparsa ma una potenza che sa di esserlo. Non c’è moralismo, non c’è imbarazzo, non c’è l’ansia da prestazione che tormenta l’Europa: c’è solo la consapevolezza degli interessi, e la volontà di coltivarli.
L’India, con il suo miliardo e mezzo di cittadini e il suo ruolo crescente tra energia, difesa e tecnologia, dialoga con Mosca senza chiedere il permesso a nessuno. L’Europa, che potrebbe giocare la carta della sua forza economica e della sua capacità di risparmio, preferisce consegnare entrambi agli Stati Uniti, alimentando la finanza americana e sostenendo i monopoli digitali d’oltreoceano. È un suicidio geopolitico lento, quasi rituale, compiuto con la stessa serenità con cui si firma un modulo in un ufficio pubblico: senza drammi, senza lucidità.
Da Chengdu è arrivata un’altra fotografia dell’ordine mondiale che cambia. Macron ricevuto da Xi Jinping con tutti gli onori, certo, ma onori che ormai suonano come un’elegante compassione. La Cina firma qualche accordo, annuisce, sorride, ma non concede nulla di ciò che Parigi – e Bruxelles – sperava di ottenere. È un gioco a carte scoperte: la potenza globale accelera, l’Europa rincorre. E mentre Macron passeggia tra i panda del santuario, la verità si insinua come un brivido freddo: il panda a rischio d’estinzione non è l’orso bianco e nero, ma la manifattura europea, compressa tra concorrenza cinese, dipendenze energetiche e un continente che non riesce più a fare sistema. Perfino il vertice diplomatico lo suggerisce: l’Alto rappresentante dell’UE è talmente marginale negli equilibri globali che nessuna delle capitali decisive – né Washington, né Pechino, né Mosca – trova il tempo di riceverlo. Un simbolo, forse involontario, della perdita di peso dell’Europa nella grande partita geopolitica.
E mentre il mondo ridisegna se stesso, l’Europa resta come una vecchia fotografia dimenticata tra le pagine di un libro: un ricordo di potenza, un’eco di centralità, un continente che fu crocevia del mondo e oggi fatica persino a definire la propria voce. La scena finale è quasi poetica, nel suo modo ruvido e stanco. Giorgia Meloni intervistata da Mentana, improvvisamente costretta a parlare di autodifesa, di autonomia, di responsabilità. Il volto tirato, le parole misurate, l’ombra lunga di un’America che si allontana. Sembra una studentessa brillante ma impreparata all’esame finale, davanti a una commissione severa che chiede risposte per cui non ha più appunti. In quell’immagine c’è tutto: il peso di un continente che non ha previsto il futuro e ora resta a guardarlo da fuori.
Il mondo non aspetta, il mondo non rallenta. È già altrove: tra Washington che si ritrae, Nuova Delhi che avanza, Chengdu che domina. L’Europa, se non si decide a cambiare pelle, rischia di diventare un’appendice sentimentale della Storia: elegante, colta, bellissima… e irrilevante.







Commenti