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Dare dei comunisti agli studenti di Medicina: la politica che evita le risposte

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 2 min
ministra bernini

Le parole pronunciate dalla ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini nei confronti degli studenti di Medicina che contestavano la riforma dell’accesso alla facoltà non sono diventate un caso per la loro durezza, ma per la loro leggerezza istituzionale. Di fronte a una protesta legata a un tema concreto e delicato come l’ingresso a Medicina, la perdita di anni accademici e l’incertezza sul futuro formativo, la risposta è stata una battuta ideologica: “comunisti”. Una parola usata come scorciatoia comunicativa, che non entra nel merito della riforma, non chiarisce i criteri, non affronta i nodi segnalati dagli studenti.



Ed è proprio qui che il problema si sposta dal contenuto della riforma al comportamento di chi la rappresenta. Non si tratta di stabilire se la riforma dell’accesso a Medicina sia giusta o sbagliata, ma di interrogarsi su come una ministra dell’Istruzione e dell’Università scelga di rapportarsi a studenti che pongono domande legittime sul proprio percorso di studi. Etichettare il dissenso con una categoria ideologica del passato non è una presa di posizione politica, è una rinuncia al confronto.

Nel 2025, dare del comunista a uno studente di Medicina non è un insulto né una provocazione efficace, è una parola svuotata, che serve solo a evitare una risposta articolata. Gli studenti di Medicina non incarnano un movimento ideologico, ma una richiesta di certezze: tempi, modalità, regole chiare. Sono pragmatici per definizione, ossessionati da test, punteggi, graduatorie e specializzazioni. Liquidarli con una battuta significa banalizzare una questione strutturale dell’università italiana, già provata da riforme continue, carenza di risorse e programmazione incerta.

Qui non c’è censura del dissenso, ma un problema più sottile e più grave: la normalizzazione della superficialità istituzionale. Una ministra non parla come una commentatrice da talk show, o almeno non dovrebbe. Il suo ruolo impone un linguaggio che tenga insieme fermezza e responsabilità, anche quando il confronto è duro. Scegliere la battuta al posto dell’argomentazione comunica un messaggio preciso: il problema non merita spiegazioni, la protesta può essere archiviata. È un modo di esercitare il potere che non reprime, ma sminuisce. Ed è proprio questo atteggiamento a meritare una riflessione critica. Non perché offenda gli studenti, ma perché abbassa il livello del dibattito pubblico sull’istruzione e sull’università. In un Paese in cui l’accesso a Medicina è da anni un tema sensibile, legato alla carenza di medici, alla qualità della formazione e al futuro del sistema sanitario, il confronto dovrebbe essere rigoroso, trasparente, persino noioso nei dettagli.


Quando invece diventa una schermaglia ideologica fuori tempo massimo, il risultato è tragicomico: studenti che parlano di anni persi e regole confuse, istituzioni che rispondono con parole stanche. La vicenda Bernini, più che uno scandalo, è un sintomo. Il sintomo di una politica che fatica a dialogare con chi studia e chiede spiegazioni, e che preferisce rifugiarsi in etichette rassicuranti perché semplici. Una volta il termine “comunista” serviva a delimitare un campo politico, oggi serve solo a chiudere una frase. E quando una ministra dell’Istruzione arriva a questo, il problema non è il dissenso degli studenti, ma la povertà del linguaggio con cui lo si affronta.


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