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1 Dicembre: perché la Giornata Mondiale contro l’AIDS passa sempre più nel silenzio

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 2 dic
  • Tempo di lettura: 4 min
AIDS

Qualche ora fa si è concluso il 1 dicembre, la Giornata Mondiale contro l’AIDS. Una ricorrenza che un tempo era una scossa collettiva, un appuntamento che scuole, media e istituzioni vivevano come un obbligo morale. Oggi invece scivola via quasi inosservata, persa nel rumore quotidiano, tra notizie lampo, polemiche politiche e la frenesia che precede l’inizio del mese di dicembre. Il paradosso è evidente: mentre la società dimentica, il virus non è affatto scomparso. E proprio questa distanza tra percezione e realtà merita di essere indagata.


Nei decenni passati l’AIDS era una delle principali emergenze sanitarie globali. Le immagini degli anni Ottanta e Novanta sono ancora impresse nella memoria: ospedali affollati, diagnosi tardive, vite spezzate, paura diffusa. La parola AIDS era associata immediatamente alla morte, alla sofferenza, allo stigma. L’HIV era il simbolo di un’epoca segnata dalla vulnerabilità e dalla consapevolezza improvvisa che nessuno fosse davvero al sicuro. Il 1 dicembre nasce proprio in quel contesto. L’OMS istituisce la giornata nel 1988, invitando il mondo intero a fermarsi almeno una volta all’anno per riflettere sulla prevenzione, sulle cure, sui diritti delle persone sieropositive e sulla necessità di combattere lo stigma.


Poi la storia cambia. Le terapie antiretrovirali, inizialmente complesse e difficili da seguire, diventano sempre più efficaci, tollerate, accessibili. L’HIV smette di essere una condanna e diventa una condizione cronica gestibile. Oggi una persona in terapia può avere una vita lunga, piena, con una carica virale non rilevabile che rende il virus non trasmissibile. È la rivoluzione racchiusa nella sigla U=U: Undetectable = Untransmittable. Una conquista scientifica che ha salvato milioni di vite e ha permesso a intere generazioni di guardare al futuro senza la paura che aveva caratterizzato gli anni più bui dell’epidemia.


Ma questa stessa rivoluzione ha avuto un effetto collaterale invisibile: la perdita dell’attenzione pubblica. Una malattia che non si vede più non esiste più nell’immaginario collettivo. I media hanno smesso di parlarne perché non fa più “rumore”. Le scuole affrontano l’argomento sempre meno perché non è percepito come urgente. Le istituzioni celebrano il 1 dicembre con comunicati brevi e iniziative circoscritte, insufficienti a raggiungere davvero la popolazione. La conseguenza è che la Giornata Mondiale contro l’AIDS passa sotto traccia, come se si trattasse di un capitolo chiuso da tempo.


In realtà non lo è. I dati dell’HIV in Italia e nel mondo raccontano una storia molto diversa. I contagi continuano ad avvenire, spesso tra i giovani che non hanno mai vissuto gli anni dell’emergenza e che, senza una vera educazione sessuale, faticano a percepire il rischio. Le diagnosi tardive sono in aumento, segno che molte persone non si sottopongono al test finché non compaiono sintomi importanti. L’uso del preservativo, dopo un periodo in cui sembrava diventato un’abitudine, è tornato a diminuire. E, mentre la scienza ha fatto passi avanti straordinari, la cultura è rimasta indietro.


Lo stigma nei confronti delle persone che vivono con HIV continua a essere un problema reale e profondo. Lo si ritrova nei luoghi di lavoro, nelle relazioni affettive, nella burocrazia, persino nei servizi sanitari. Sopravvive sotto forma di diffidenza, paura, ignoranza. La società ha cambiato percezione della malattia, ma non ha fatto lo stesso con le persone che la vivono. È un disallineamento che pesa più del virus stesso, perché alimenta silenzi e discriminazioni e impedisce a molti di chiedere aiuto, informarsi, sottoporsi a un test.

Ed è qui che il 1 dicembre dovrebbe avere un ruolo fondamentale. La Giornata Mondiale contro l’AIDS non dovrebbe servire solo a ricordare il passato, ma a illuminare il presente. Non è una commemorazione, ma una chiamata alla responsabilità collettiva. È il momento dell’anno in cui ricordare che la prevenzione è ancora una necessità, che l’informazione salva vite e che una diagnosi precoce può evitare complicazioni gravi. È anche il momento per ricordare che convivere con l’HIV oggi è possibile, dignitoso, sicuro, e che lo stigma contro le persone sieropositive non ha più nessuna giustificazione scientifica.


Il silenzio che avvolge questa giornata non è casuale. È figlio di una società che dimentica rapidamente ciò che non vede e che si concentra solo sulle emergenze che scoppiano sotto i riflettori. Ma l’HIV non è scomparso. Si è trasformato, ha cambiato volto, è diventato più silenzioso. Proprio per questo è più facile sottovalutarlo. E quando una malattia diventa silenziosa, il rischio è che anche la prevenzione lo diventi.


Per questo motivo il 1 dicembre dovrebbe essere recuperato, rinnovato, rinforzato. Dovrebbe tornare a essere un giorno di informazione chiara, di sensibilizzazione reale, di educazione sanitaria nelle scuole, di dialogo pubblico. Dovrebbe essere un promemoria collettivo che la lotta all’AIDS non è mai stata soltanto una questione medica, ma anche culturale e sociale. Una società che sa informare è una società che sa proteggersi.


In conclusione, il motivo per cui non si parla più del 1 dicembre non è la fine del problema, ma la fine della percezione del problema. Una percezione sbagliata, pericolosa, che può generare nuovi rischi proprio mentre la scienza ci offre strumenti efficaci per combatterli. La Giornata Mondiale contro l’AIDS serve ancora, forse più di prima. Serve a ricordare ciò che la memoria tende a cancellare: che il virus non è scomparso, che la prevenzione è fondamentale e che lo stigma è una battaglia ancora aperta. Il 1 dicembre è passato, sì. Ma non dovrebbe passare invano.


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