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Siamo diventati un’app: autopsia di un cervello collettivo ormai defunto

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 6 giorni fa
  • Tempo di lettura: 2 min

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Una volta la vita era un’arena disordinata, non la caricatura digitale che ci siamo cuciti addosso oggi: ti svegliavi male, ti lavavi se ti ricordavi, mangiavi quello che capitava e nessuno pretendeva di dirti quanti passi fare o quanta acqua bere; ora invece sembriamo animali addomesticati dalle notifiche, felici come allocchi di farci spiegare da un’icona come vivere, perché evidentemente una vita ridotta a un’app è più comoda di una vita vera, con tutto il suo sudore, i suoi errori e la sua imprevedibilità.


Le relazioni un tempo nascevano per sbaglio, per caso, per noia, per disperazione, per destino: oggi invece ci lasciamo valutare da un algoritmo che decide se siamo scarti o potenziali partner, come se la nostra dignità fosse un coupon; facciamo swipe con la stessa serietà con cui buttiamo via la carta delle patatine, convinti che sia normale cercare amore in una vetrina digitale che ci trasforma in prodotti in saldo. Per orientarti bastava camminare, sbagliare, chiedere a uno sconosciuto che probabilmente ti mandava a quel paese: ora se Google Maps tossisce ci sentiamo persi come cosmonauti sovietici con la tuta bucata, incapaci di ritrovare noi stessi senza un puntino blu che ci tenga la mano; era più dignitoso perdersi davvero che vivere oggi attaccati a un caricabatterie come fosse un respiratore.


Le serate di una volta avevano peso, spessore, odore: fumo stantio, bicchieri pesanti, conversazioni storte ma vive; oggi invece sembriamo cadaveri luminosi, ognuno inghiottito dal proprio schermo mentre finge di essere presente: le emozioni scorrono rapide, consumate come scarti industriali, e la tragedia non è più tragedia, è “contenuto”, pronto a essere ingoiato e dimenticato in tre secondi. La nostalgia non è debolezza: è la certezza che eravamo più umani quando non avevamo app che ci dettavano respiri, umori e idratazione; oggi basta un pop-up per convincerci che stiamo bene, anche quando siamo crollati dentro, perché ormai crediamo più agli algoritmi che ai nostri nervi.


La verità più imbarazzante è che non siamo vittime: siamo complici volontari, felici di consegnare la nostra libertà a sistemi che ci preferiscono prevedibili, gestibili, misurabili; la spontaneità oggi è un bug, l’imprevisto un errore di sistema, la vita una timeline da scorrere distrattamente. E domani, quando l’app del sonno ci dirà che abbiamo riposato male, obbediremo come soldatini rassegnati: cambieremo routine, abitudini, perfino percezioni, perché ormai abbiamo delegato anche la nostra stanchezza a una dashboard. Una vita ridotta a un’app: ed eccoci, inginocchiati davanti al nostro altare tascabile, convinti che sia modernità e non la resa più elegante, più comoda e più idiota che l’umanità potesse escogitare.


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