Dal Medio Oriente al Venezuela: come gli USA esportano democrazia dove c’è petrolio
- Max RAMPONI

- 1 giorno fa
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È curioso: ogni volta che si parla di difesa della democrazia, si scopre sempre che c’è di mezzo il petrolio. Curioso nel senso statistico del termine, perché quando una coincidenza si ripete per settant’anni smette di essere una coincidenza e diventa una strategia. Gli Stati Uniti non esportano democrazia, esportano narrazioni. La democrazia è il packaging, il petrolio è il contenuto. La retorica serve a rendere presentabile ciò che altrimenti apparirebbe per quello che è: un sistema di interventi militari, colpi di Stato, destabilizzazioni e “regime change” motivati da interessi energetici e geopolitici.
La storia recente è un catalogo coerente di questa dinamica, ripetuta con disciplina quasi industriale. L’Iran del 1953 rappresenta il prototipo perfetto: un governo democraticamente eletto che decide di nazionalizzare il petrolio, sottraendolo al controllo occidentale. Risultato: operazione Ajax, CIA e MI6, Mossadeq rimosso, Shah reinsediato. La democrazia, in quel caso, non era da difendere ma da eliminare perché interferiva con il flusso energetico. Nessuna indignazione, nessuna emergenza umanitaria, solo silenzio e stabilità garantita. Da quel momento in poi il modello si è raffinato ma non è mai stato abbandonato.
Ogni volta che una nazione ricca di petrolio tenta una gestione autonoma delle proprie risorse, diventa improvvisamente un problema globale. Non importa se il regime è autoritario da decenni, non importa se è stato sostenuto dagli Stati Uniti fino al giorno prima. La questione non è la democrazia, è l’affidabilità. Saddam Hussein è stato un alleato finché serviva contro l’Iran, poi è diventato un tiranno da abbattere quando ha smesso di essere funzionale e ha messo le mani su riserve petrolifere che dovevano restare sotto controllo occidentale. Le due guerre del Golfo sono il manuale illustrato dell’esportazione democratica: prima la liberazione del Kuwait, poi la favola delle armi di distruzione di massa. La seconda guerra in Iraq è stata presentata come una missione per portare la democrazia in Medio Oriente. Il risultato è stato uno Stato distrutto, milioni di morti, un’instabilità cronica e contratti petroliferi riassegnati con puntualità svizzera. La democrazia promessa non è mai arrivata, ma il petrolio ha continuato a scorrere.
La Libia segue lo stesso schema con una brutalità ancora più evidente. Gheddafi era un dittatore da quarant’anni, tollerato, visitato, fotografato, stretto di mano. Diventa improvvisamente inaccettabile quando inizia a parlare di una gestione africana delle risorse energetiche, di una moneta sganciata dal dollaro, di un controllo sovrano del petrolio. A quel punto la narrazione cambia: protezione dei civili, intervento umanitario, esportazione della democrazia. Il risultato è uno Stato fallito, milizie armate, traffici illegali, instabilità permanente. Il petrolio libico, invece, non ha mai smesso di interessare nessuno.
L’Afghanistan viene spesso citato come eccezione, ma non lo è davvero. Non è un Paese ricco di petrolio, ma è una piattaforma strategica fondamentale, una cerniera geopolitica tra Asia centrale, Medio Oriente e subcontinente indiano. Vent’anni di occupazione militare giustificati con la lotta al terrorismo e la costruzione della democrazia, conclusi con una fuga notturna e il ritorno esatto del regime che si diceva di aver sconfitto. Anche lì la democrazia era una parola temporanea, utile finché serviva a giustificare una presenza militare in una posizione chiave.
Il copione non cambia nemmeno in America Latina. Il Venezuela è l’esempio più recente e più trasparente. Il Paese possiede le più grandi riserve di petrolio del pianeta e, guarda caso, è diventato uno dei principali bersagli della politica estera statunitense. Sanzioni, isolamento, delegittimazione, tentativi di colpo di Stato, riconoscimento di presidenti alternativi, tutto in nome della democrazia e dei diritti umani. Il problema reale non è Maduro in sé, ma il fatto che il Venezuela gestisca autonomamente il proprio petrolio e non sia allineato agli interessi energetici statunitensi.
La democrazia viene evocata come un mantra, ma ciò che realmente infastidisce è l’indipendenza. Quando un Paese con grandi risorse energetiche non si allinea, diventa automaticamente una minaccia. Non importa se le condizioni di vita peggiorano a causa delle sanzioni, non importa se la popolazione paga il prezzo più alto. La sofferenza diventa uno strumento, un effetto collaterale accettabile nella grande partita del controllo energetico. La distopia non è un futuro immaginario, è un presente normalizzato.
È un mondo in cui le guerre vengono chiamate missioni di pace, le invasioni interventi umanitari, i colpi di Stato transizioni democratiche. È un sistema in cui la democrazia non è un obiettivo ma una parola elastica, adattabile, spendibile solo quando serve. Se un regime autoritario garantisce stabilità energetica, diventa un alleato. Se un governo eletto democraticamente mette in discussione i contratti, diventa un pericolo. La morale viene applicata a geometria variabile, sempre subordinata al flusso delle risorse. Guardando questa sequenza storica, parlare di esportazione della democrazia appare per quello che è: una narrazione di copertura.
La democrazia non arriva mai con i bombardieri, non nasce sotto occupazione militare, non si costruisce distruggendo Stati. Quella che viene esportata è una versione sterile, retorica, utile solo a giustificare interventi che hanno obiettivi chiari e misurabili: petrolio, gas, rotte strategiche, influenza geopolitica. Tutto il resto è linguaggio. E il linguaggio, quando viene ripetuto abbastanza a lungo, diventa accettabile.
Così accettiamo che interi Paesi vengano destabilizzati in nome di valori che non verranno mai applicati. Accettiamo che la democrazia venga invocata solo dove conviene. Accettiamo che il petrolio continui a essere il vero motore delle guerre moderne, mentre la retorica democratica serve a rendere digeribile ciò che altrimenti apparirebbe semplicemente per quello che è: un sistema globale fondato sul controllo delle risorse, non sulla libertà dei popoli.







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